(di Cristiana Missori)
(ANSAmed) - ROMA, 10 APR - "Vorrei una Turchia in cui è
possibile almeno respirare. Lo dico come donna e come essere
umano. Vivere in questo momento storico nel mio Paese è
psicologicamente molto pesante. L'atmosfera è molto tesa. Lo è
sul piano sociale, economico e individuale". Sono parole di
profondo pessimismo quelle pronunciate da Emine Emel Balci,
giovane regista turca che ieri sera al cinema Odeon di Firenze
ha presentato in anteprima italiana il suo Until I lose my
breath. Un lungometraggio, il primo per l'artista trentenne,
nata e vissuta sempre a Istanbul, che certo non trasuda
ottimismo e sentimento di speranza. La storia è quella di Serap,
adolescente inquieta che lavora in una fabbrica di tessuti a
Istanbul e sogna di lasciare la casa che divide con l'opprimente
sorella e il cognato per andare a vivere da sola con il padre,
ma quando l'uomo si dimostra indifferente al suo desiderio sarà
lei a prendere in mano la situazione. Una pellicola che dipinge
la città sul Bosforo in maniera diversa da come spesso viene
percepita dai milioni di turisti che ogni anno la visitano: non
pittoresca e fascinosa, ma povera e dolente, dove trovano spazio
disillusione e rassegnazione.
"Sono molto pessimista - racconta ad ANSAmed l'artista - su
quanto sta accadendo in Turchia. Non credo che il Paese abbia
imboccato la giusta direzione". Non si azzarda a fare ipotesi di
scenario su quanto accadrà dopo il 7 giugno, data cruciale in
cui si svolgeranno le elezioni politiche definite da alcuni
osservatori "le più importanti della storia del Paese". "Non
credo che cambierà poi molto e non lo credono nemmeno le
migliaia di persone che erano scese in piazza per Gezi Park",
sospira. Proprio nella sua Istanbul, la capolista del principale
partito di opposizione turco, il Chp di Kemal Kilicdaroglu, sarà
la candidata cristiana armena, Selina Ozuzun Dogan. "E' troppo
tardi", replica secca. "Potevano pensarci prima ad aprire alle
minoranze etnico-religiose". E proprio della tragedia del popolo
armeno, parla The Cut, lungometraggio appena uscito nelle sale
italiane - proprio in occasione del centenario del genocidio -
firmato da un altro regista turco, Fathi Akil. "Akil ha fatto
una scelta molto coraggiosa". E lei - che a differenza di Akil
vive stabilmente in Turchia - l'avrebbe fatta una scelta del
genere? "La storia giusta da raccontare - dice - la devi
sentire. Nel mio primo lungo documentario, Ich liebe dich
(presentato in diversi festival tra cui la Berlinale, ndr) ho
scelto di parlare di donne curde. Sono molto interessata ai temi
sociali e alle condizioni di vita nella nostra società".
Fare cinema in Turchia e affrontare alcune questioni mettendo
davanti allo specchio la società turca non è cosa semplice. "A
sostenere l'industria è soltanto il governo che sceglie se
finanziare o meno i film a seconda della sceneggiatura. Bisogna
essere politicamente corretti per ricevere sostegno economico. E
comunque le cifre messe a disposizione non bastano a coprire
interamente i costi di realizzazione". L'unica strada restano le
co-produzioni. In genere francesi o tedesche, come nel caso di
Until I lose my breath.(ANSAmed).