(di Diego Minuti)
(ANSAmed) - XXX GEN - Quattro anni fa, quando ancora non si
era dispersa l'acre nuvolaglia dei gas lacrimogeni, Zine el
Abidine Ben Ali abbandonò la Tunisia che, scendendo in piazza,
aveva deciso di scacciarlo. Una fuga in piena regola, con la
moglie,l'odiata dal popolo Leila, ed il più piccolo dei figli,
per evitare una resa dei conti che, come insegna la storia
recente di altre rivolte nel mondo arabo, poteva risolversi in
un gigantesco bagno di sangue.
Sono passati quattro anni e la Tunisia, per uscire da una
gravissima crisi (economica e di valori), ha deciso di voltare
pagina, dopo l'ebbrezza dei primi mesi dopo la fine
dell'era-Ben Ali.Un periodo che ha mostrato inequivocabilmente
la fragilità di una democrazia giunta sulle ali di una rabbia
popolare covata per troppo tempo. Sentimento alimentato dalla
rabbia di vedere un Paese, potenzialmente in grado di badare a
se stesso, divorato da una cricca rapace, costituita dalla
famiglia del dittatore e dai suoi sodali, che fagocitò tutto
quello che produceva ricchezza, fregandosene della legge e del
rispetto per gli altri.
La fine ingloriosa di Ben Ali, restituendo la Tunisia alla
democrazia, ha imposto di seguire la strada già percorsa da
altri Paesi che, trovatisi dall'oggi al domani liberi dalla
dittatura, hanno pensato che questo desse alla nuova classe
dirigente un salvacondotto per ogni decisione. Cosa che ha
portato la Tunisia, con le elezioni della Costituente e la presa
del potere - dopo un voto democratico - da parte della
coalizione guidata dall'islamico Ennahdha, a inseguire il sogno
di avere, pronta ed efficace, una efficace governance. Un
errore, come ha dimostrato il tempo, che ha alimentato in molti
il rimpianto per il vecchio modello di Ben Ali, in cui la
corruzione era imperante, ma contribuiva a fare marciare la
macchina-Paese. E' paradossale, ma sino a ieri, girando per le
strade di Tunisi come dell'intellettuale Sousse o della
cosmopolita Mahdia non era infrequente trovare chi ricordava
quasi con nostalgia i tempi in cui Ben Ali assicurava che tutto
andasse per un verso, non certo quello giusto, ma comunque era
''un verso''. Gli anni del governo targato Ennahdha hanno
spaccato il Paese, ben più di quello che l'esito delle recenti
consultazioni elettorali ha mostrato, acuendo le
differenziazioni tra chi ha pensato all'Islam come all'elisir
per guarire tutte le ferite e chi, invece, rivendica la laicità
dello Stato come garanzia contro le diseguaglianze. Il Paese,
anche sull'onda emotiva di gravi eventi di cronaca, ha deciso
di fare un passo indietro nel tempo, affidandosi ad un vecchio e
navigato statista, Beji Caid Essebsi, che non ha mai nascosto -
nè avrebbe potuto farlo - il suo cursus honorum, che lo riporta
all'epoca di Bourghiba e, anche, di Ben Ali. A lui, pragmatico
come sempre, spetta il compito di fare comprendere ai suoi
concittadini che la ''primavera'' tunisina, pur se ha portato la
democrazia o a qualcosa di molto simile,non può più condizionare
la vita quotidiana del Paese, dove l'Islam deve avere un posto
importante, ma non può comprimere le libertà anche di uno solo
dei tunisini. Concetto spesso dimenticato da chi, in nome e per
conto della religione, ha pensato che chi non condivideva questo
messaggio era un nemico da abbattere. (ANSAmed).
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