(di Cristiana Missori) (ANSAmed) - IL CAIRO, 18 DIC -
Mantenere viva l'identita' e il proprio patrimonio culturale
difendendo non soltanto la memoria ma anche gli antichi saperi
artigiani che rischiano di scomparire. E' lo spirito con cui da
oltre 40 anni, Shahira Mehrez, ricercatrice, docente
universitaria, stilista e filantropa, si batte per impedire che
gli abiti per secoli indossati nelle aree rurali dell'Egitto
svaniscano per sempre, inghiottiti dall'occidentalizzazione dei
costumi e dalla globalizzazione. ''Ho iniziato a collezionare
vestiti provenienti dalle zone piu' remote del Paese all'eta' di
16 anni'', racconta ad ANSAMed nella sua boutique di Dokki, al
Cairo. Con il tempo, dice, ''sono riuscita a catalogare e
documentare l'abbigliamento tipico di ognuna delle 27 province
egiziane''. Da Nord a Sud, dalla penisola del Sinai fino a
giungere a Siwa, la piu' occidentale delle oasi egiziane, la sua
ricerca ha consentito il censimento delle diverse
caratteristiche regionali: dagli abiti indossati dalle
popolazioni nomadi e berbere a quelli delle contadine della
valle del Nilo. Da una zona all'altra del Paese, spiega la
ricercatrice, ''esistono differenze enormi nei motivi e nelle
lavorazioni. Tutte, pero', si rifanno all'antico Egitto''.
Dagli anni '80, Shahira Mehrez espone parte della sua
collezione in giro per il mondo, per sensibilizzare l'opinione
pubblica e per fare conoscere la ricchezza del patrimonio delle
aree rurali egiziane. Alcuni di questi abiti saranno in mostra
da oggi pomeriggio all'Accademia d'Egitto a Roma. Tra questi, ci
saranno alcune galabeye (tuniche tradizionali) provenienti da
Siwa, dalla Nubia e dalla Valle del Delta.
Per troppo tempo, spiega l'ex docente di Arte e di
Architettura islamica presso l'Universita' americana del Cairo e
di Helwan, ''abbiamo voluto imitare il modo di vestire degli
occidentali. Quando ero giovane io, tutto cio' che veniva
dall'Europa, e in particolare da Parigi, era alla moda, chic''.
Per essere 'a la page', insomma, bisognava possedere abiti,
mobili e oggetti, francesi. ''Tutto questo - rimarca - non ha
fatto altro che allontanare gli egiziani dalle loro radici. Un
tempo, infatti, ''gli abiti tradizionali, erano indossati dalle
donne di ogni classe sociale. Signore e contadine. La differenza
era nei tessuti, piu' o meno pregiati, o nei materiali: gioielli
in oro e argento o rame''. Una produzione artigianale e una
lavorazione che rischiavano dunque di scomparire. Cosi' la
Mehrez decide di andare alla ricerca delle ultime poche sarte in
grado di riprodurre i motivi degli abiti tradizionali. Oggi nel
suo atelier vende galabeye, abaye (apprezzate e indossate
soprattutto nei Paesi del Golfo) e abiti ricamati con i motivi
tipici dei beduini del Sinai e delle contadine dell'Alto Egitto,
ma anche oggetti, gioielli in oro e rame e mobili. La
lavorazione tessile, spiega, e' affidata a 35 sarte che
riproducono i modelli da lei recuperati. Nel suo negozio si
trovano anche prodotti realizzati dalle circa 1200 donne e
giovani ragazze coinvolte nel ''El-Arish Needlework Program''.
Un progetto nato nel 1973 grazie al Mennonite Central Committee
of North America e guidato proprio dalla Mehrez dal 1981, grazie
al quale e' stato possibile sviluppare l'occupazione femminile
in una zona del Paese - il Sinai del Nord - in cui ancora oggi
e' molto difficile trovare donne, generalmente sposate e poco
qualificate, che lavorino al di fuori dalle mura domestiche,
soprattutto fra le beduine fra cui il tasso di analfabetismo e'
ancora estremamente elevato. Tutto questo per preservare il
passato. E per quel che concerne il presente? Dal gennaio 2011
Shahira Mehrez e' scesa in piazza al fianco dei manifestanti. E'
stata una delle prime fondatrici di 'Takreem', ong che aiuta le
famiglie dei ''martiri'' della rivoluzione. Oggi invece e' in
piazza contro la Costituzione. (ANSAmed).