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Cultura: Egitto, gli abiti del deserto in difesa identita'

Ricercatrice recupera memoria e salva lavoro artigianale beduini

18 dicembre, 15:31

(di Cristiana Missori) (ANSAmed) - IL CAIRO, 18 DIC - Mantenere viva l'identita' e il proprio patrimonio culturale difendendo non soltanto la memoria ma anche gli antichi saperi artigiani che rischiano di scomparire. E' lo spirito con cui da oltre 40 anni, Shahira Mehrez, ricercatrice, docente universitaria, stilista e filantropa, si batte per impedire che gli abiti per secoli indossati nelle aree rurali dell'Egitto svaniscano per sempre, inghiottiti dall'occidentalizzazione dei costumi e dalla globalizzazione. ''Ho iniziato a collezionare vestiti provenienti dalle zone piu' remote del Paese all'eta' di 16 anni'', racconta ad ANSAMed nella sua boutique di Dokki, al Cairo. Con il tempo, dice, ''sono riuscita a catalogare e documentare l'abbigliamento tipico di ognuna delle 27 province egiziane''. Da Nord a Sud, dalla penisola del Sinai fino a giungere a Siwa, la piu' occidentale delle oasi egiziane, la sua ricerca ha consentito il censimento delle diverse caratteristiche regionali: dagli abiti indossati dalle popolazioni nomadi e berbere a quelli delle contadine della valle del Nilo. Da una zona all'altra del Paese, spiega la ricercatrice, ''esistono differenze enormi nei motivi e nelle lavorazioni. Tutte, pero', si rifanno all'antico Egitto''. Dagli anni '80, Shahira Mehrez espone parte della sua collezione in giro per il mondo, per sensibilizzare l'opinione pubblica e per fare conoscere la ricchezza del patrimonio delle aree rurali egiziane. Alcuni di questi abiti saranno in mostra da oggi pomeriggio all'Accademia d'Egitto a Roma. Tra questi, ci saranno alcune galabeye (tuniche tradizionali) provenienti da Siwa, dalla Nubia e dalla Valle del Delta. Per troppo tempo, spiega l'ex docente di Arte e di Architettura islamica presso l'Universita' americana del Cairo e di Helwan, ''abbiamo voluto imitare il modo di vestire degli occidentali. Quando ero giovane io, tutto cio' che veniva dall'Europa, e in particolare da Parigi, era alla moda, chic''.

Per essere 'a la page', insomma, bisognava possedere abiti, mobili e oggetti, francesi. ''Tutto questo - rimarca - non ha fatto altro che allontanare gli egiziani dalle loro radici. Un tempo, infatti, ''gli abiti tradizionali, erano indossati dalle donne di ogni classe sociale. Signore e contadine. La differenza era nei tessuti, piu' o meno pregiati, o nei materiali: gioielli in oro e argento o rame''. Una produzione artigianale e una lavorazione che rischiavano dunque di scomparire. Cosi' la Mehrez decide di andare alla ricerca delle ultime poche sarte in grado di riprodurre i motivi degli abiti tradizionali. Oggi nel suo atelier vende galabeye, abaye (apprezzate e indossate soprattutto nei Paesi del Golfo) e abiti ricamati con i motivi tipici dei beduini del Sinai e delle contadine dell'Alto Egitto, ma anche oggetti, gioielli in oro e rame e mobili. La lavorazione tessile, spiega, e' affidata a 35 sarte che riproducono i modelli da lei recuperati. Nel suo negozio si trovano anche prodotti realizzati dalle circa 1200 donne e giovani ragazze coinvolte nel ''El-Arish Needlework Program''.

Un progetto nato nel 1973 grazie al Mennonite Central Committee of North America e guidato proprio dalla Mehrez dal 1981, grazie al quale e' stato possibile sviluppare l'occupazione femminile in una zona del Paese - il Sinai del Nord - in cui ancora oggi e' molto difficile trovare donne, generalmente sposate e poco qualificate, che lavorino al di fuori dalle mura domestiche, soprattutto fra le beduine fra cui il tasso di analfabetismo e' ancora estremamente elevato. Tutto questo per preservare il passato. E per quel che concerne il presente? Dal gennaio 2011 Shahira Mehrez e' scesa in piazza al fianco dei manifestanti. E' stata una delle prime fondatrici di 'Takreem', ong che aiuta le famiglie dei ''martiri'' della rivoluzione. Oggi invece e' in piazza contro la Costituzione. (ANSAmed).

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