Portavamo coperte, in diverse occasioni prendevamo bambini in ipotermia e li mettevamo in auto accendendo l'aria calda: migliaia di persone sbarcavano e non c'era una sola ambulanza vicino a quella spiaggia". Duley racconta anche delle sue scelte stilistiche a partire dall'idea di ritrarre molti migranti su uno sfondo bianco: "Se vedi qualcuno fotografato in un campo profughi - spiega - lo vedi come un rifugiato, io volevo che fossero visti come persone. Nei campi profughi non ho visto persone che speravano o che tiravano pietre come spesso vengono ritratte sui media. Ho visto persone che cercavano di costruire una normalità per sé e per i propri figli. Vedi amore, risate, bambini che giocano, persone che cucinano, è importante che un fotografo documenti questo, perché sono momenti a cui tutti possiamo relazionarci.
In Giordania mi avevano detto che difficilmente avrei ritratto donne, per motivi religiosi. Dopo qualche giorno tre donne mi chiesero una sigaretta ma non volevano che lo sapessero i loro mariti, così andammo dietro ad un palazzo e lì fumarono e risero a lungo". E ripensando al suo lavoro, il fotografo ricorda non solo fli immigrati, ma anche tanti europei: "Uno degli aspetti più incoraggianti di questi ultimi due anni è stato il numero enorme di volontari che ho visto in opera, persone che non l'avevano mai fatti e che sentivano di dover intervenire. A Lesbo incontrai due donne greche che stavano vicino alla spiaggia e abbracciavano ogni bambini che sbarcava. Mi spiegarono che erano esse stesse immigrate, le loro madri erano sbarcate lì tanti anni prima dalla Turchia, 'in ognuno di questi bambini rivediamo le nostre madri', mi dissero. (ANSAmed)
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