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Libri: donne e diritti negati, voci dall'Arabia Saudita

Liimatainen racconta la società della potenza sunnita del Golfo

21 dicembre, 12:06

(di Luciana Borsatti) (ANSAmed) - ROMA, 21 DIC - Un Paese cruciale per gli equilibri geopolitici nel Medio Oriente di oggi, ma di cui - nel merito - si parla ancora troppo poco. E' l'Arabia Saudita, alleato di ferro dell'Occidente che tuttavia decapita con la spada i suoi condannati, riempie le carceri di prigionieri politici e vieta la guida alle donne per garantire ai maschi di famiglia di non perderne il controllo. Alla principale potenza del Golfo, pur non priva di tante sfaccettature nel sociale e di un'ala riformatrice accanto a quella dura nella famiglia regnante - dedica un raro e appassionato saggio Liisa Liimatainen, giornalista già corrispondente per la tv finlandese in Italia e inviata in Medio Oriente. Il titolo del saggio - pubblicato nel 2013 in Finlandia e ora uscito in versione aggiornata con Castelvecchi - è già una tesi: "L'Arabia Saudita. Uno stato islamico contro le donne ed i diritti" (Castelvecchi, 285 pp, 19,50 euro). Ma il testo va ben oltre, e racconta una società giovane e in movimento accanto ad un sistema politico ingessato, senza Costituzione né parlamento eletto, privo di un corpo definito di leggi e che bolla come "terroristi" dissidenti interni e oppositori.

Non è frequente avere un racconto in presa diretta dal regno saudita, e il merito di questo saggio è proprio quello di darcelo, in una polifonia di voci - di donne "normali" e straordinarie, di attivisti e di chi non ha voce in politica, di giovani e di sciiti della Provincia orientale - che riflette un Paese tutt'altro che monolitico.

E soprattutto un Paese sull'orlo di una crisi che rischia di trasformarsi in tempesta: disoccupato il 40% dei giovani (i 2/3 dei sudditi), indigente il 40% della popolazione, il 60% che non può permettersi un alloggio dignitoso. Insomma, numeri che possono minare alla base le radici del consenso su cui per decenni si è retta, grazie alle rendite petrolifere, la potente monarchia sunnita. E con i quali si misurerà nei prossimi anni la Saudi Vision 2030, ossia la politica economica lanciata nei mesi scorsi dalla nuova leadership succeduta alla morte del vecchio re Abdullah. Una triade in cui è al trentenne Muhammad bin Salman - figlio prediletto del nuovo re Salman bin Abdulaziz, depositario di grandi poteri nonché ministro della Difesa e artefice della guerra in Yemen - che sembrano riservate le chiavi del futuro. Ma che intanto, annota l'autrice, rappresenta "la linea dura incarnata dal clan dei Sudairi", che intende realizzare "un drastico risanamento economico imposto dall'alto". Programma lanciato, sottolinea, quasi in concomitanza con quelle decapitazioni di massa di inizio 2016 (vittima, tra i 47 "terroristi" mandati a morte, anche la voce religiosa della minoranza sciita Nimr al Nimr, il cui caso ha esasperato le tensioni con Teheran), la cui vera funzione sarebbe stata di monito ai potenziali oppositori delle riforme - considerato che la nuova definizione di terrorismo in vigore comprende in realtà il dissenso in tutte le sue possibili declinazioni.

Il piano della Saudi Vision 2030 punta fra l'altro a diversificare un'economia troppo dipendente dal petrolio, ad agganciare un anacronistico settore scolastico al mercato del lavoro, a potenziare il turismo, ad aumentare il tasso di impiego femminile dal 22 al 30% e a creare un trasporto pubblico, cruciale per le donne che non possono guidare.

Al di là delle visioni del futuro, restano però le crude realtà dell'oggi: come il fatto che in carcere vi sarebbero circa 30 mila prigionieri politici; o la perdurante guerra contro gli sciiti yemeniti, che Riad ritiene "marionette dell'Iran" ma che in primo luogo sono zayditi, e non duodecimani come i cugini iraniani. O il confuso rapporto con quel jihadismo sunnita che il wahabismo saudita ha tanto contribuito ad alimentare, dall'Afghanistan alla Siria, salvo poi ritrovarselo in casa, dove dal novembre 2014 l'Isis avrebbe compiuto una trentina di attentati.

Ma "la riluttanza del clero ufficiale a condannare l'estremismo generato dal wahabismo - scrive Liiza Limatainen - dipende dal rifiuto di schierarsi contro le azioni che fomentano la rivoluzione in Siria: per il clero, il jihad contro il regime di al-Assad è legittimo. Per la sua natura settaria, il clero è molto più pronto a condannare i crimini dei regimi di Siria e Iran che quelli dell'Isis". E questo a fronte delle misure pur adottate contro il terrorismo, come il controllo delle transazioni finanziarie o i 20 anni di carcere previsti per chi si arruola nella jihad in Siria. Perchè alla fine il primo nemico di Riad resta l'Iran, e da questa rivalità discende molto, troppo, di tutto il resto. (ANSAmed).

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