(di Michele Monni) (ANSAmed) - RAMALLAH, 14 MAG - "Ricordo bene la notte in cui lasciammo la nostra casa di Jaffa. Ci portammo dietro solo il crocifisso e la macchina da cucire di mia madre". Ibrahim Khoury, architetto di Ramallah, racconta la sua Nakba, la "catastrofe" palestinese: la fuga di centinaia di migliaia di palestinesi - a seguito delle violenze del primo conflitto arabo-israeliano - da città e villaggi che nel 1948 diventarono parte dello stato di Israele.
"Impiegammo due giorni per raggiungere Jifna. La' - ci dissero - avremmo potuto trovare rifugio presso i locali della parrocchia latina" racconta Khoury. Parte dei cristiani di Jaffa, Lod e Ramle, che da allora sono in Israele - precisa - trovarono rifugio nei villaggi cristiani di Birzeit, Taybeh e Jifna, oggi nei Territori. "La fuga fu una decisione presa dalla comunità cristiana della città": era allarmata, secondo Khoury, dalle violenze crescenti tra i reparti paramilitari ebraici dell'Irgun e dell'Haganah che stazionavano a Tel Aviv, e quelli arabi che di stanza nella vicina Jaffa.
Durante gli scontri più di trentamila abitanti arabi di Jaffa - allora era una delle principali città costiere della Palestina storica - lasciarono le case con mezzi di fortuna. I combattimenti fecero migliaia di morti civili, da entrambe le parti.
''A Jifna la vita era dura", dice all'Ansa l'anziano palestinese (76 anni, 4 figli e una decina di nipoti). "Vivevamo stipati nei locali della parrocchia: non solo cristiani, anche musulmani. L'Unrwa (l'Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi) aveva appena iniziato le sue operazioni e forniva minimi mezzi di sostentamento. La chiesa ci dava il resto". Le lezioni scolastiche per i bambini si tenevano in un enorme stanzone: gli allievi erano divisi in gruppi secondo l'età, e a turno dovevano mantenere il silenzio mentre l'insegnante impartiva la lezione ad altri. "Era un caos totale!" aggiunge con un sorriso.
"Qualche anno dopo mio padre scomparve per un paio di giorni.
Eravamo molto preoccupati perché era una persona precisa, meticolosa, non si sarebbe mai allontanato senza spiegazioni".
Clandestinamente era tornato a Jaffa, per vedere la casa di famiglia. "Quando arrivò davanti alla nostra casa di Jaffa, vide che era occupata da una famiglia di ebrei. Disperato andò sulla spiaggia a piangere. Quando tornò a Jifna, aveva con se' un sacchetto di conchiglie raccolte in riva al mare. Io le conservo ancora: sono l'unica cosa che ci è rimasta della nostra vita a Jaffa".
"Quel che è stato è stato" conclude Khoury con tono filosofico. "Ora e' venuto il momento di condividere questa terra. Ma Israele continua a costruire colonie e a sfollare i palestinesi anche nella Cisgiordania. Per noi è una storia già vista".