(di Lorenzo Trombetta)
(ANSAMed) - BEIRUT, 16 FEB - Che le rivolte arabe non
sarebbero stata una gita di piacere per i milioni di persone
coinvolte in un fenomeno senza precedenti lo sapeva bene Anthony
Shadid, 43enne pluri-premiato giornalista americano di origini
libanesi, firma del Washington Post e poi del New York Times,
scomparso un anno fa nel nord della Siria mentre tentava di
raccontare l'ennesima storia intrisa di violenza e speranza.
Ucciso il 16 febbraio 2012 non da un colpo di arma da fuoco
o dall'esplosione di una mina ,ma da un banale quanto fortissimo
attacco di asma, Shadid ha incarnato per anni un modello di
giornalismo in via d'estinzione, fondendo l'abilità del cronista
di raccontare l'immediatezza e quella dell'analista di spiegare
in parole semplici fenomeni complessi.
Una fusione che è perfettamente riuscita nel suo ultimo
libro - "La casa di pietra" (ADD Editore) - uscito postumo
l'anno scorso e di cui si attende a breve la prima ristampa
dell'edizione italiana. Il sottotitolo - "Memorie di una casa,
una famiglia e un Medio Oriente perduto" - testimonia la
molteplicità delle dimensioni contenute in un testo voluminoso
(circa 450 pagine in italiano), ma utile per andare oltre i
logorati luoghi comuni sulla regione.
Perché "la casa di pietra" non è solo il racconto di
un'epopea familiare, un'autobiografia o una ricostruzione
giornalistica di eventi più o meno recenti. Ma è soprattutto una
testimonianza di come ancora oggi, per i cronisti e per chiunque
intenda fare divulgazione, sia necessario tornare alle origini
degli eventi, siano essi privati o collettivi. E scavare sotto
le macerie della grande Storia e delle piccole storie
individuali, calpestare il terreno alla ricerca di prove, dati,
voci di ieri e di oggi.
Già nell'autunno 2011, nove mesi dopo la caduta del
presidente egiziano Hosni Mubarak, Shadid scriveva dal Cairo
quel che molte firme del giornalismo occidentale hanno
cominciato a scrivere solo nelle ultime settimane: che "le
rivolte arabe non saranno una passeggiata senza ostacoli" e che
non mancheranno "frammentazione, bagni di sangue, disordine".
"Anthony non ha mai usato nei suoi articoli l'espressione
'Primavera araba' perché era cosciente che non si trattava né di
un fenomeno passeggero né di un processo incruento", afferma
Nada Bakri, seconda moglie di Shadid, parlando a Beirut con
ANSAMed. Anche lei è una giornalista del New York Times e i due
si conobbero sotto le bombe della guerra tra Israele e gli
Hezbollah libanese nell'estate del 2006.
Solo pochi mesi prima, Shadid era tornato alle sue origini.
E aveva toccato con mano le pietre di quella che fu la casa dei
suoi antenati, a Marjuyun, nel sud del Libano. Il percorso
narrativo del libro si snoda attraverso le fasi di restauro di
questo 'bayt', il cui significato va oltre il senso delle
quattro mura e racchiude quello di famiglia allargata.
Quella di Shadid - nato a Oklahoma city - era stata ormai
naturalizzata americana da due generazioni. "Sebbene fosse nato
e cresciuto negli Stati Uniti, si sentiva comunque arabo, figlio
del Levante arabo", racconta la moglie. E' un'inclinazione che
emerge con forza nelle pagine del libro, dove si rievoca a più
riprese il cosmopolitismo e l'unità territoriale delle province
arabe dell'Impero ottomano. In questo "Medio Oriente perduto",
che trascendeva i confini degli stati nazionali creati a
tavolino dalle potenze coloniali circa un secolo fa, i suoi
antenati originari dell'Hawran - oggi Siria meridionale -
poterono con relativa facilità giungere nell'odierno sud del
Libano e costruire il loro 'bayt'.
Shadid aveva sempre sognato di diventare un giornalista
specializzato in Medio Oriente, ricorda la moglie. E per questo,
nei primi anni '90 si recò al Cairo per imparare l'arabo. Nella
capitale egiziana vi tornò qualche anno dopo per dirigere
l'ufficio dell'Associated Press. Da allora in poi la sua
carriera è puntellata di incarichi di prestigio e di
riconoscimenti: per il suo lavoro in Iraq ha vinto per ben due
volte, nel 2004 e nel 2010, il Pulitzer.
Premi ma anche rischi. Nel 2002 fu ferito ad una spalla dal
proiettile esploso da un cecchino israeliano a Ramallah, in
Cisgiordania. E nel raccontare la rivolta libica del 2011, fu
catturato e tenuto prigioniero per alcuni giorni dalle autorità
di Tripoli assieme ad altri colleghi. Tra loro c'era il
fotografo Tyler Hicks. Lo stesso che ha assistito impotente
all'assurda morte di Shadid su una collina del nord della Siria.
"Anthony è stato sempre molto prudente nel suo lavoro",
ricorda Nada Bakri, madre di Malik, il loro figlio di appena tre
anni rimasto orfano del padre. "Ma era spinto dalla
responsabilità di raccontare storie che, come ripeteva spesso,
andavano raccontate in quel momento. Se no, non sarebbero mai
più state raccontate". (ANSAMed).