(ANSAmed) - TUNISI, 24 FEB - Fare il giornalista in Libia di
questi tempi diventa ogni giorno più difficile, considerato il
caos che sta vivendo il Paese, e trasforma l'esercizio di questa
professione in una sofferenza quotidiana. Se ne è parlato alla
conferenza dal titolo ''Proteggere i giornalisti durante i
conflitti: il caso libico'' svoltasi a Tunisi ed organizzata dal
Capjc Centre, (Centre Africaine de perfectionnement des
journalistes et communicateurs) che ha visto la testimonianza di
alcuni professionisti del settore che hanno descritto le
condizioni di lavoro dei propri colleghi libici. Alcuni tra
coloro che risiedono in zone della Libia governate da bande
islamiche, sono costretti a vivere nascosti, poiché la loro
apparizione in pubblico potrebbe valergli la morte, altri
preferiscono scegliere l'esilio volontario, altri ancora
decidono di rimanere ma più nessuno sembra ormai essere padrone
del proprio destino. Quale che sia il gruppo che esercita il
potere ove essi svolgono la loro professione, nella gran parte
dei casi il loro operato si limita a quello di far da portavoce
a qualcun altro. E poco importa se il messaggio da propagandare
è quello dell'apologia della violenza, dell'odio e la negazione
dell'altro. Rare eccezioni a questa regola sono alcuni media
indipendenti che hanno scelto di assumersi il rischio di
riportare i fatti con una certa obiettività ma che ovviamente
sono costretti a vivere nel terrore di rappresaglie nei loro
confronti e dei componenti delle loro famiglie. Il giornalista
libico Jamel Adel ha riferito di aver viaggiato per lavoro in
molti paesi difficili, ma di aver trovato la situazione
particolarmente complicata proprio nel suo paese e ha raccontato
del caso della direttrice della televisione Al-Aan (adesso),
costretta a lavorare per le milizie islamiche dopo che il canale
è stato posto sotto controllo da queste ultime. Questa donna ha
pagato sulla propria persona il prezzo della copertura
equilibrata dei fatti. Una violenta campagna denigratoria su
internet e soprattutto le minacce di morte nei suoi confronti
l'hanno costretta a prendere la via dell'esilio. Il direttore
del quotidiano algerino Al Watan, Amor Belhuocett, ha riferito
delle eliminazioni fisiche dei giornalisti durante il decennio
nero algerino del fondamentalismo islamico. Ha voluto ricordare,
soprattutto, come all'epoca i giornalisti fossero l'obiettivo
dei gruppi radicali islamici e al tempo stesso delle autorità
che non esitavano a gettarli in prigione poiché detentori di
verità scomode. Durante il dibattito si è inoltre discusso della
proposta di creazione di una carta per la protezione dei
giornalisti libici da proporre alle autorità e alla società
civile libica in maniera che i principi della professione
possano essere applicati sul terreno. La conferenza è stata
anche l'occasione per presentare l'associazione Asouat Al Hidhab
(voci delle colline),tra i promotori dell'incontro, che ha messo
a disposizione dei media un importante database. Formata da un
gruppo di giornalisti provenienti da Mali, Mauritania, Algeria,
Libia e Marocco, essa si candida a diventare la voce di chi non
ha piu' voce e si contraddistingue per il modo di trattare gli
argomenti che abitualmente passano sotto silenzio dai media
tradizionali. Tra le ambizioni di Asouat Al Hidbab anche la
contribuzione attiva alla ricerca di soluzioni pacifiche ai
conflitti armati. (ANSAmed)