Tra di loro c'è Augustina Sunday, eritrea. Ha solo 21 anni ma ha già vissuto varie vite: per settimane perduta nel deserto, poi detenuta in Libia, infine alla deriva su una barcaccia nel Mediterraneo. "Piangevamo perché pensavamo che saremmo morti", ricorda in dichiarazioni all'agenzia Lusa. Ora lavora in una pasticceria, ha ritrovato il sorriso e spera "in un futuro migliore". Con Deborah sono le uniche due donne del gruppo formato da 14 eritrei, 3 nigeriani, 1 yemenita e 1 sudanese, ospitati nel vecchio seminario di Fundao, successivamente trasformato dal Comune in ostello per gli studenti provenienti dalle ex colonie portoghesi e poi adattato a Centro per le Migrazioni, anche grazie ai buoni uffici di uno dei cittadini più illustri, Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite. Anche Deborah impiegò mesi per arrivare in Libia, dove finì sequestrata durante un anno e fu testimone di crimini, violenze e torture. Non sapeva nemmeno dove si trovasse il Portogallo: "Credevo fosse in Africa", confessa. "Avevo sentito parlare di Cristiano Ronaldo, ma ignoravo che fosse portoghese". Sognava di andare in Germania, come Walleed, yemenita, l'unico del gruppo riuscito ad arrivarci, grazie a un visto di ricongiungimento familiare. Deborah però conserva intatto il suo sogno di una seconda vita in Europa: "Voglio lavorare, sposarmi, avere figli e vivere in pace qui, a Fundao", dice.
Per alcuni, in fuga dalla guerra, come Guadesh, 54 anni, il più anziano dei migranti, un ex sindaco che conserva le ferite di 4 pallottole, la fuga verso il continente era l'unica possibilità di sopravvivere. Meskel Kelete, 27 anni, ne ha trascorsi due imprigionato in Libia e ha visto morire uno dei suoi amici. Gebru Mehari, rimasto per mesi ammanettato, conserva i segni dei pestaggi e delle torture. Ora entrambi lavorano in un'azienda agricola e condividono con gli altri le spoglie e fredde stanze del vecchio seminario. Ma tutti sono pieni di speranza: "Nulla - dicono - può essere peggio di quello che ci siamo lasciati alle spalle". "Erano numeri, sono arrivati esausti, ammalati, in stress post-traumatico e denutriti", ricorda Paula Pio, psicologa e coordinatrice del Centro per le Migrazioni, a capo dell'equipe di giovani che lavora per la loro integrazione. Il programma prevede classi di portoghese e formazione per aiutarli a trovare un lavoro. A Fundao ricevono vestivi, scarpe, coperte, 150 euro al mese e un telefono cellulare, per comunicare con le famiglie d'origine. Ahmed Abderhim, che ha impiegato tre anni per arrivare in Portogallo e ha lasciato il suo bambino in Sudan, come Gebru e Hadush spera di poter presto ricongiungersi con i propri cari. Abiel Madgu, 22 anni, eritreo, da un mese lavora come apprendista per Twintex, un'impresa tessile che impiega 420 dipendenti ed esporta l'intera produzione. "Se tutto andrà bene, potrò continuare a lavorare e mi faranno un contratto a lungo termine", spiega Abiel, deciso a non perdere l'opportunità di un futuro a Fundao. Una opportunità anche per la cittadina, che con l'integrazione dei migranti spera di allontanare lo spettro dell'invecchiamento e dello spopolamento.(ANSAmed).