(di Francesca Bellino)
(ANSAmed) - ROMA - "Sono stata costretta a diventare giornalista". Fino a qualche anno fa Maisa Saleh lavorava come infermiera ad Aleppo e non avrebbe mai pensato di trovarsi in prima linea per documentare la storia del suo Paese. Invece non ha avuto scelta: "Dopo numerosissimi arresti di giornalisti siriani, ma anche occidentali, si era creato un tale vuoto d'informazione che molti attivisti si sono sentiti costretti a prestarsi al giornalismo per provare a dare un'immagine reale di quello che accadeva. E così ho fatto anch'io", ha raccontato ad ANSAmed al margine del Festival di Internazionale a Ferrara.
E così Maisa, 31 anni, venerdì scorso ha ricevuto il premio giornalistico Anna Politkovskaja all'ottava edizione del Festival Internazionale a Ferrara proprio per il suo coraggio e la sua tenacia. Spinta dal desiderio di vedere il proprio Paese libero e democratico, Maisa non c'ha pensato due volte e non si è risparmiata di fronte alla proposta di collaborare con Orient News Television. Ha realizzato, a Damasco, una serie di interviste sul campo per il programma settimanale "Dalla Capitale", travestendosi e nascondendo la propria identità per raccontare "la rivoluzione siriana", che secondo lei "non è finita". Nonostante gli "oltre 200 mila morti, i 2 milioni di persone incarcerate, gli 11 milioni di sfollati e i 100 mila dispersi", Maisa vuole guardare avanti, senza dimenticare però quello che ha vissuto e a cui ha assistito. Arrestata dal regime di Assad, incarcerata per sette mesi, torturata, liberata e costretta ad andare in esilio lasciando la sua terra e una sorella ancora in carcere, Maisa non si è mai pentita della propria decisione. Ha accettato le conseguenze, soffrendo per sé e le altre donne incontrate in carcere. Ha vissuto in una cella angusta, condivisa con molte altre donne, fino a cinquanta, senza muoversi, mangiare, lavarsi, né andare in bagno.
"Dall'inizio dell'anno vivo illegalmente in Turchia, a Gaziantep, dove ho raggiunto parte della mia famiglia. Qui il regime siriano non c'è, non ho paura. Continuo a seguire quello che accade nel mio Paese e ho ricominciato a fare la giornalista sempre per la televisione - ha spiegato Maisa - Qui posso lavorare senza nascondermi e con una troupe. Neanche l'Isis mi spaventa. Da qui i soldati passano soltanto. La Turchia ha le sue responsabilità perché molti jihadisti sono passati proprio dalle sue frontiere, ma non è l'unico Paese ad essersi comportato così. Lasciare libero il passaggio significa liberarsi del problema" della loro presenza.
Maisa sta lavorando alla realizzazione di una serie di 13 mini-documentari dal titolo "Effetto farfalla" dedicati alle donne attiviste siriane esiliate in Turchia, in Giordania e Libano per Orient News Television. "Partendo dalle loro brutte esperienze in carcere faremo sapere in quante importanti iniziative si sono trasformate quelle sofferenze". (ANSAmed).