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Svolta verde in Gb, via le auto a benzina e diesel in 10 anni

Solo elettriche dal 2030. Ma sul piano di Johnson è già scontro

Alessandro Logroscino LONDRA

Un'isola di strade silenziose e aria meno inquinata. E' il panorama quasi bucolico della Gran Bretagna dell'avvenire, un avvenire assai prossimo, tratteggiato dai piani della "rivoluzione industriale verde" partoriti dal governo Tory di Boris Johnson: certo più vicino al presidente americano neoeletto Joe Biden sulla risposta ai cambiamenti climatici rispetto a quanto non fosse al recalcitrante 'amico' uscente Donald Trump. Piani promessi da tempo da BoJo - che in famiglia ha nel padre Stanley un pioniere riconosciuto dell'ambientalismo conservatore made in Britain - e formalizzati ora nero su bianco sulla carta: con tanto d'impegno ad anticipare dal 2040 al non lontano 2030 l'obiettivo del bando contro la vendita di qualsiasi nuova automobile diesel o a benzina nel Regno (e proroga limitata al 2035 per i modelli ibridi di futura generazione), in modo da rendere spedita come in nessun altro grande Paese sviluppato la transizione verso un parco nazionale di veicoli esclusivamente elettrici.

Deciso a riverniciare la propria leadership - appannata dagli affanni della gestione di un'emergenza Covid che lo vede di nuovo isolato per ragioni precauzionali, dalle incognite dei negoziati con l'Ue sul dopo Brexit e in ultimo dalla faida interna a Downing Street sfociata nel traumatico addio del super consigliere Dominic Cummings - il primo ministro ha scelto con cura la tempistica dell'annuncio. E ha condensato la sua strategia in una cornice di 10 punti sottoposta all'attenzione del Parlamento, del mondo economico, della pubblica opinione. Un programma ancora scarno di dettagli, ma suggestivo nei titoli. Sul piatto spunta la promessa di investimenti complessivi per 12 miliardi di sterline nel corso del decennio, con l'impegno a creare almeno 250.000 nuovi posti di lavoro 'green'.

Oltre ad accelerare verso il ronzio della motorizzazione elettrica di massa (uno stanziamento da 1,3 miliardi dovrà aiutare a far disseminare il Paese di stazioni di caricamento di batterie), il manifesto del Boris ecologista prevede di sovvenzionare forme alternative di energia (idrogeno, eolico, ma anche nucleare), di far piantare alberi su altri 30.000 ettari di verde, di ripristinare siti del patrimonio naturalistico, di moltiplicare piste ciclabili e pedonali. Un modo per dar l'esempio e collocarsi in pole position sulla scena internazionale, dice il premier, che conferma poi (ma per il 2050) il traguardo 'zero emissioni' nocive nel Regno giusto alla vigilia della conferenza Onu sul clima CoP 26 in programma nel 2021 con epilogo a Glasgow - dopo il rinvio causato dalla pandemia - sotto la presidenza dello stesso governo britannico e la collaborazione di quello italiano. Sipario e applausi? Non proprio. La rivoluzione verde targata Tory non convince ad esempio il partito ecologista britannico dei Verdi.

A cominciare dalla sua unica deputata, la battagliera Caroline Lucas, che riconosce "singoli aspetti positivi" nel piano Johnson, ma nel quadro di una strategia non sufficientemente "ambiziosa": nemmeno "lontanamente all'altezza della gravità del momento", dell'urgenza dei pericoli che minacciano "il clima e la natura". Mentre di segno diverso sono le reazioni ansiose di non pochi imprenditori: divisi fra chi apprezza - ma chiede di vederci più chiaro e avere più certezze sui finanziamenti evocati a parole dal governo - e chi, in primis la Society of Motor Manufacturers and Traders (Smmt), organizzazione di categoria che rappresenta l'intera filiera di produttori e commercianti di veicoli isolani, pretenderebbe incentivi ben maggiori maggiori per una riconversione epocale; o almeno tempi più lunghi sullo sfondo dei contraccolpi paralleli incassati dallo tsunami Covid a botte di lockdown.

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