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Lucio, con la telecamera ho raccontato la mia leucemia

Lucio, con la telecamera ho raccontato la mia leucemia

Un film per narrare quello che non riuscivo a fare con le parole

ROMA, 20 marzo 2018, 15:14

Redazione ANSA

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Lucio, con la telecamera ho raccontato la mia leucemia - RIPRODUZIONE RISERVATA

Lucio, con la telecamera ho raccontato la mia leucemia -     RIPRODUZIONE RISERVATA
Lucio, con la telecamera ho raccontato la mia leucemia - RIPRODUZIONE RISERVATA

"Nella primavera del 2010 mi sono ammalato di leucemia. Me lo hanno detto per telefono mentre stavo andando a suonare con gli amici: dovrebbe tornare all'ospedale domani, c'è qualcosa che non va". Videomaker, montatore e regista di diversi cortometraggi e videoclip, Lucio Viglierchio aveva 29 anni quando ha avuto diagnosticato un tumore che fino a qualche tempo fa non lasciava scampo. E' iniziato così il percorso che lo ha portato a realizzare il film documentario "Luce mia", una storia che racconta la malattia, ma soprattutto la vita. "Ho deciso di tornare in reparto con la telecamera per cercare di ritrovare una parte di me", racconta.


    "Era tanto tempo che non facevo analisi del sangue e farle in quel momento è stato un colpo di fortuna. Nei mesi precedenti - racconta - avevo avvertito una certa debolezza ma non immaginavo minimamente potesse trattarsi di un tumore". Pochi giorni dopo, arriva la diagnosi precisa: Leucemia Mieloide Acuta. "La prima cosa che ho provato, è stato un enorme senso di vuoto. Mi sono sentito inerme e solo davanti a questa enormità. Ma ora so che non era così". Dopo una settimana il ricovero. "Chiesi ai medici: ho delle speranze? Nel 2010 tutti hanno delle speranze, mi hanno risposto". Lucio passa così un mese all'ospedale Umberto I di Torino e un mese a casa in isolamento. "Avrei dovuto fare 6 cicli di chemio ma il mio midollo non ce la faceva più a sostenerle e ho dovuto interrompere prima della fine della terapia. Ci ho messo un anno a riprendermi e non sono mancati i problemi". Febbre forte, tremori, infezioni. Ma la cosa peggiore "è non sapere cosa ti aspetta". Prelievi del midollo, infusioni di farmaci, perdita dei capelli: tutto documentato in un webdoc, una sorta di diario in cui mostra tutti gli step di diagnosi, cura e remissione. "E' stato il mio modo di raccontare qualcosa di cui era in realtà molto difficile per me parlare a voce", spiega.
    L'ultima chemio ad agosto, e poco dopo la notizia che cambia la vita, "quella che non avrei mai ritenuto potesse succedere: io e la mia compagna aspettavamo una figlia. Pensavo sarebbe stato difficile diventare padre, invece è successo subito dopo la fine delle terapie e questo ha spostato la mia attenzione da me". E' pensando alla figlia che Lucio riesce a superare l'angoscia dei continui controlli, in un anno molto difficile "vissuto nel limbo tra remissione della malattia e guarigione vera e propria". Ed è in questo periodo che inizia a sentire l'esigenza di raccontare quanto accaduto in un film documentario. "Il video è il mio linguaggio. Per questo ho voluto tornare in ospedale con una telecamera. Sono entrato in quelle stanze a 29 anni con un candore e una spensieratezza che speravo di ritrovare. In realtà ho acquisito la consapevolezza che non avrei mai potuto riconquistarle". Così, nel reparto in cui era stato curato incontra Sabrina, anche lei con una diagnosi di leucemia, ma nel suo caso la prognosi era negativa.


    "Insieme abbiamo deciso di percorrere la sua battaglia, alla ricerca di quell'attimo in cui si smette di essere pazienti e si torna esseri umani. Passare attraverso la sua malattia, mi ha aiutato a rielaborare quello che mi era successo". Nasce così, nel 2015, "Luce Mia" prodotto in associazione con Rai Cinema, presentato al Torino Film Festival e proiettato in diverse città italiane, anche davanti a tanti medici e infermieri. Parte dei motivi che lo hanno spinto a filmare in ospedale era poter mostrare loro il punto di vista del paziente. "Molti, anche per difendersi dalla difficoltà di convivere col dolore dell'altro, lavorano mettendo in atto dei protocolli in modo asettico.
    L'effetto cinema, il buio della sala, il maxischermo, l'assenza di distrazioni, hanno la capacità di farti entrare in una dimensione che riesce a suscitare empatia immediata con quello che stai guardando. Spesso, nella routine quotidiana, gli operatori sanitari non possono permetterselo. Penso di aver dato ad alcuni di loro l'occasione per farlo".
   

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