Theresa May

Redazione ANSA

Per qualcuno è quasi una controfigura inglese di Angela Merkel, l'altra leader donna del G7 a presidenza italiana con cui, prima che con chiunque altro, dovrà trovare un accordo - o regolare i conti - nell'ormai imminente avvio del negoziati verso la Brexit. Ma Theresa May, ministro dell'Interno di lungo corso divenuta premier britannica sull'onda del referendum dello scorso anno che ha sancito l'uscita del regno dall'Ue e la fine prematura della carriera politica di David Cameron, non ama essere paragonata ad alcuno. Sicura di se', per quanto poco carismatica, ha in comune con la cancelliera tedesca, oltre allo stile sobrio (c'è chi dice grigio), i geni d'un padre ecclesiastico - pastore luterano l'una, anglicano l'altra - e un'educazione austera: a parte una certa passione eccentrica per le scarpe. Nata a Eastbourne, 60 anni compiuti, May in gioventù studia geografia a Oxford e s'avvicina ben presto alla militanza in un Partito Conservatore agli albori della rivoluzione thatcheriana. E' lì che conosce il marito Philip, presentatole da una compagna di studi destinata a diventare famosa e a morire tragicamente, Benazir Bhutto, futura leader del Pakistan. Le nozze arrivano di lì a poco, i figli no: "Semplicemente non e' successo", dice. Dopo la laurea, e prima di buttarsi definitivamente in politica, lavora alla Bank of England. Poi è tutta una scalata: senza balzi, ma costante. A darle la grande chance e' la vittoria elettorale Tory del 2010, quando Cameron la designa al timone chiave dell'Home Office, il ministero dell'Interno: che guiderà per sei anni (un record) con garbato pugno d'acciaio e toni inflessibili sulla immigrazione e contro il radicalismo islamico. Ma non senza una patina d'attenzione al sociale estranea al liberismo ultra'. Si guadagna cosi' la stima della destra più tradizionalista del partito. Incassa però le critiche del Labour e di varie ong, per esempio quando lancia la proposta, poi caduta, di far uscire l'isola dalla Convenzione europea per i diritti dell'uomo. Il nome di Theresa May, oggi, e' tuttavia legato soprattutto al dossier Brexit. Sostenitrice tiepida del fronte 'Remain' al referendum del 23 giugno 2016, ma in realtà euroscettica storica, è subentrata a Cameron come figura unitaria, con la promessa di ricomporre le fratture fra anti-Ue e pro-Ue. Salvo esordire nella nuova carica (seconda inquilina donna al numero 10 di Downing Street dopo Margaret Thatcher, fantasma e modello irraggiungibile per qualsiasi altra pretendente 'lady di ferro' Tory) con una scelta di campo netta: "Brexit vuol dire Brexit", ha detto e ripetuto dal primo giorno. In un crescendo che l'ha poi portata a sfidare il parlamento per avviare entro fine marzo l'iter di recesso dall'Ue, a prevedere anche la rinuncia al mercato unico europeo caro alla City, addirittura a minacciare - se Bruxelles dovesse spingere il negoziato al muro contro muro - di far diventare la Gran Bretagna un 'paradiso fiscale'. Mentre ha cercato subito la sponda Usa con Donald Trump, affrettandosi a invitarlo, prima di qualunque altro partner occidentale, per una visita di Stato a Londra ospite della regina. Un feeling che potrebbe 'riscaldarsi' ancora al sole di Taormina.

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