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L'America ebraica anni '30 di Arthur Miller

L'America ebraica anni '30 di Arthur Miller

ottimo spettacolo di Pugliese con Elena Sofia Ricci e Donadoni

ROMA, 11 febbraio 2020, 16:03

Redazione ANSA

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Paolo Petroni Un bello spettacolo classico, tradizionale ma davvero di alto livello, coinvolgente grazie agli interpreti che strappano applausi a scena aperta e una regia senza eccessi ma giusta e incalzante di Armando Pugliese che fa ben affiorare in superficie tutto ciò che è dietro il testo di questo ''Vetri rotti'' di Arthur Miller all'Eliseo sino al 16 febbraio, indagine serrata sulle fragilità della condizione umana attraverso quella esemplare di una coppia ebrea newyorkese a fine anni '30, mentre dalla Germania arrivano notizie terribili sulla ''notte dei cristalli'' e la violenza atroce delle persecuzioni.
    I vetri rotti sono così quelli delle vetrine dei negozi di ebrei tedeschi ma anche alludono a quanto è andato in frantumi nel rapporto di coppia di Sylvia e Philip, che si vogliono bene ma non hanno più rapporti da vent'anni, da quando lei cercò di dimostrare la propria indipendenza volendo trovarsi un lavoro e lui sentì messo in crisi il proprio ruolo di uomo. E' tutto un passato che viene al pettine nel momento in cui Sylvia si ritrova su una sedia a rotelle con le gambe molli che non la reggono più, terrorizzata dalle foto e gli articoli che legge su quel che sta accadendo in Germania e a lui, che le dice ''Ma non ti riguarda, è a seimila miglia di distanza'', lei replica che in un'immagine di umiliazione estrema c'era un uomo che le pareva proprio suo nonno. Su queste sue paure trasferisce anche quelle per la propria condizione di donna che non si ritrova più, che non riconosce più se stessa dopo una vita di rinunce ai propri bisogni e modo d'essere e la sua paralisi, per il dottor Harry, è di natura psichica, è il grido di allarme del suo inconscio, del suo bisogno di attenzione e amore.
    Il dottore e il marito sono due ebrei che, in diverso modo, provano a dimenticare se non a negare la propria identità. Harry da medico colto e razionalista che ha sposato una non ebrea e Philp in maniera più complessa, da una parte orgoglioso dei propri successi e quelli di suo figlio militare nonostante questa ''diversità'' che nell'America razzista è un ostacolo, dall'altra temendola e nascondendola come non esistesse, almeno sino al giorno in cui, davanti a ingiuste accuse del suo capo, la rivendica e denuncia drammaticamente. E' il segno della sua crisi profonda, aperta da quel che il dottore gli va dicendo sulle ragioni psicologiche della situazione della moglie, che ora non accetta più la sua rozzezza e lo respinge continuamente.
    Quella corazza che si era costruito di uomo solido e tutto d'un pezzo si incrina e anche con Sylvia, via via nasce un nuovo confronto.
    In questo psicologismo il testo rivela un po' di superficialità e schematismo, rispetto ad altri di Miller, ma riesce a mantenere un certo ritmo serrato (grazie anche alla traduzione di Masolino D'Amico), un coerente sviluppo, un bel gioco di personaggi tra empatie e insofferenze, anche quelli di contorno tutti ben costruiti, che vivono grazie alla verità in alcuni momenti emozionante che gli danno gli ottimi interpreti, a cominciare dai tre protagonisti: la appassionata, dolorosa, intensa e misurata Sylvia di Elena Sofia Ricci, il delicato, graduale passare dalla durezza a un'apertura portata via via sino alla umana estrema fragilità di Maurizio Donadoni, le ombre che riesce a dare David Coco al suo pur poco sfaccettato medico insinuante e seducente. Con loro, tutti giustamente applauditi, sono Elisabetta Arosio, Serena Amalia Mazzone e Alessandro Cremona, tutti sulla quasi nuda scena firmata da Andrea Taddei, un po' un palcoscenico sul palcoscenico, dove via via salgono i personaggi a mostrarsi nei loro momenti di incontro e passaggio.
   
   

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