(di Paolo Petroni)
JAMES JOYCE, 'ULISSE' (La Nave di
Teseo, pag. 1056, euro 25,00). Sono passati esattamente 60 anni
da quando uscì in Italia la prima traduzione dell' ''Ulisse'' di
James Joyce pubblicata da Mondadori, un'opera di cui, chi non
conosceva bene l'inglese, aveva sentito molto parlare da quando
era uscita nel 1922, come di uno dei punti di riferimento della
nascita del romanzo moderno. ''Una traduzione estremamente
impegnativa, un lavoro meraviglioso, visti gli strumenti e il
materiale bibliografico che aveva allora a disposizione'',
sottolinea Mario Biondi, poeta, scrittore (con ''Gli occhi di
una donna'' ha vinto il Campiello nel 1985) e uno dei più
apprezzati nostri traduttori dall'inglese, che firma oggi una
nuova traduzione, un volume di oltre mille pagine edito da La
nave di Teseo in uscita il 4 giugno, arricchita da un apparato
di note indispensabile per comprendere la ricchezza della
scrittura.
Da quella mitica traduzione del 1960 passarono oltre 50
anni, a parte una particolare edizione del 1995 firmata da Bona
Flecchia, prima che altri traduttori si misurassero con quel
testo: Enrico Terrinoni con Carlo Bigazzi nel 2012 (Newton
Compton) e Gianni Celati nel 2013 (Einaudi).
Quello di Biondi ''è il lavoro di una vita - come racconta
lui stesso - cui ho iniziato a pensare non a caso 60 anni fa e
con cui ho solo provato a misurami negli anni '70, giudicando
però di non essere all'altezza dell'impresa. Mi sentivo, io che
un tempo ho fatto atletica seriamente, come se avessi voluto
sfidare l'amico e coetaneo inarrivabile Berruti sui 100 metri.
Oggi invece, con 21 libri miei editi e, a 80 anni con più tempo
libero e 71 traduzioni pubblicate mi sono detto: sei un
traduttore? Allora provaci''.
Uno dei temi e problemi del tradurre Joyce è il suono, la
musicalità della sua prosa che, per Umberto Eco, si capiva
davvero solo leggendola ad alta voce. E Biondi ricorda come
''l'italiano e l'inglese abbiano due sonorità molto differenti e
che l'irlandese (di Joyce) ne abbia una ancora diversa molto più
ritmata, difficile da riportare nella lingua italiana, più
suadente, meno sincopata''. Allora la scelta è stata radicale:
''immergersi nell'opera e poi iniziare a tradurla sentendomi
James Joyce che scrive 'Ulisse' in italiano e Mr. Bloom è
diventato il Signor Bloom''.
''Ulisse'' è la storia minuziosa di una giornata, il 16
giugno 1904, di un gruppo di dublinesi e il mito dell'eroe
delll'Odissea serve a Joyce ''per dare un senso e una forma
all'immensa futilità e anarchia della storia contemporanea'',
come ha scritto Eliot, e per descrivere il perdersi
nell'esistenza quotidiana dell'uomo d'oggi.
Il romanzo considerato uno dei più importanti del Novecento,
ha uno stile che varia su tutti i registri dal parodistico al
dottrinale e usa spesso il cosiddetto ''monologo interiore'',
ovvero il riportare un flusso di coscienza, in cui i pensieri
del protagonista scorrono in assoluta libertà. Così, via via la
lettura del racconto joyciano si fa impegnativa: ''Certo, a lui
non importava niente che i dialoghi complessi potessero
risultare oscuri per il lettore, anzi: più oscurità c'era, più -
secondo lui - si introducevano possibili 'portali di scoperta' -
spiega Biondi - E come tali arrivava persino ad accogliere in
qualche caso gli errori dei tipografi, senza correggerli e
ridendone beato; in altri casi, però, poteva essere maniacale
nelle sue correzioni. Comunque sia: una cosa è l'oscurità
dell'autore, voluta o imposta dalla furia creativa (e come tale
subita? Chissà…), una del tutto diversa è quella del traduttore,
che potrebbe ingenerare il dubbio: ha voluto rispettare
l'oscurità dell'autore o non ha capito bene? Meglio, secondo me,
cercare di evitarla.... come traduttore ho il dovere di offrire
un testo chiaro, dimostrando di averlo capito al meglio''. Ed
ecco allora come ci restituisce Biondi uno dei punti più
discussi, il celebre inizio del capitolo XI: ''Bronzo e oro
fianco a fianco sentirono gli zoccoli ferrati, dacciaiosonanti.
/ Impertnt tntntn. / Schegge, piluccandosi schegge da rocciosa
unghia di pollice, / schegge. / Tremenda! E oro arrossì di più.
/ Una roca nota di piffero fiorì. / Fiorì. La sfumatura della
segale in fiore''. Mentre per limitarci alle versioni recenti,
senza voler fare paragoni fuori posto, un'altro scrittore,
Gianni Celati, lo ha risolto in questo modo: ''Bronzo con oro
udito il suon di zoccoli, d'acciaio rombanti. / Impertnènt tnènt
tnènt. / Scaglie, via sfregando scaglie dalla silicea unghia del
pollice. Orrore! Oro arrossì dal ribrezzo. Roca nota di piffero
sonò''. E Terrinoni e Bigazzi: ''Bronzo accanto a oro udì ferri
di zoccolo, d'acciaio tonante. / Imperthnthn thnthnthn. /
Schegge, estraendo schegge dall'unghia coriacea del pollice,
schegge. / Disgustoso! E Oro arrossì di più. Soffiò una fioca
nota di piffero''.
E Biondi conclude la sua articolata e ricca nota
introduttiva affermando: ''È del tutto possibile che qualche
errore mi sia scappato. Prego il lettore di perdonarmi e di
ricordarsi che, gli "errori sono […] i portali della scoperta"…
O magari, semplicemente, interpretazioni''.
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