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Il 'regno' di Nursultan

Il 'regno' di Nursultan

Kazakistan: 25 anni fa l’indipendenza


RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

Sono passati 25 anni da quando, il 16 dicembre del 1991, il Kazakistan dichiarò la propria indipendenza da un’Unione sovietica ormai moribonda. Ora come allora al potere c’è sempre lui: Nursultan Nazarbayev, un presidente autoritario che reprime ogni forma d’opposizione e dai tempi di Gorbaciov tiene saldamente nelle sue mani il timone di questo paese dell’Asia centrale grande nove volte l’Italia e ricchissimo di idrocarburi.

di Giuseppe Agliastro


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In questo quarto di secolo di indipendenza, il Kazakistan è stato capace di mantenersi in equilibrio destreggiandosi abilmente tra i pesi massimi dello scacchiere internazionale. Resta sempre molto vicino a Mosca e fa parte dell’Unione economica eurasiatica voluta da Putin e dominata dalla Russia, ma fa affari e stringe accordi anche con la Cina (che è uno dei maggiori investitori del paese) ed è in buoni rapporti con le principali potenze occidentali, le cui compagnie - quelle americane in primis, ma anche l’italiana Eni - trivellano ed estraggono qui notevoli quantità di petrolio e gas, soprattutto sui fondali e lungo le coste del Mar Caspio.

Negli ultimi anni, il crollo del prezzo del greggio ha però provocato problemi economici e tensioni sociali e ha causato una forte svalutazione della divisa nazionale, il tenghe, costringendo l’anno scorso Nazarbayev a introdurre una moratoria sull'aumento degli stipendi e dei dipendenti pubblici fino al 2018. Inoltre, tra le piaghe che affliggono il Kazakistan vi sono la corruzione, i problemi ambientali e, secondo Human Rights Watch, “pesanti” restrizioni alle “libertà di riunione, di parola e di religione”, e anche “le torture restano una questione seria”.

In Kazakistan l'opposizione praticamente non esiste. Qui dal 1989 c'è un solo uomo al comando: il presidente Nursultan Nazarbayev. Tentare di porre un limite al suo potere assoluto significa rischiare anni di carcere, umiliazioni e violenze. Lo sa bene Vladimir Kozlov, il leader di quello che era il principale partito d'opposizione, Algà! (Avanti!). E' uscito di galera lo scorso agosto, a 56 anni, dopo averne trascorsi più di quattro e mezzo dietro le sbarre. Il motivo? Aver fomentato “disordini di massa e odio interetnico”. Secondo molti osservatori però dietro la condanna ci sono solo ragioni politiche. Kozlov è stato accusato di aver incitato alla rivolta gli operai del settore petrolifero di Zhanaozen, la cui protesta è stata repressa nel sangue dalla polizia kazaka. Il 16 dicembre del 2011 – 20esimo anniversario dell'indipendenza - gli agenti presero a fucilate i manifestanti uccidendo 16 persone e ferendone 95.

In carcere però c'è finito Kozlov, che nel giorno della strage era da tutt'altra parte.

Le testimonianze dell'oppositore Vladimir Kozlov

Le testimonianze dell'oppositore Vladimir Kozlov

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Le testimonianze dell'oppositore Vladimir Kozlov
Le testimonianze dell'oppositore Vladimir Kozlov (2)

Guai a mettersi contro il presidente

La statua 'alata' di Nazarbayev
La statua 'alata ' di Nazarbayev - RIPRODUZIONE RISERVATA

Incontriamo Kozlov nel seminterrato di un locale di Almaty, la città più popolosa ed ex capitale del Kazakistan.
 
''I petrolieri della cittadina di Zhanaozen - ricorda - proclamarono lo sciopero nel febbraio del 2011. Prima, per tre o quattro anni, avevano scioperato riuscendo a strappare alcune concessioni, ma non appena interrompevano la protesta, l'amministrazione in un modo o nell'altro si rimangiava quello che aveva promesso. I lavoratori – prosegue Kozlov - si rendevano conto che, stringi stringi, non avevano ottenuto nulla, e iniziavano nuovi scioperi''. Così, a febbraio, gli operai tornarono a incrociare le braccia. La stangata non tardò però ad arrivare e due mesi dopo, nell’aprile del 2011, il governo dichiarò illegale lo sciopero licenziando in un sol colpo 1.800 persone. ''Erano tutti operai di etnia kazaka, con molti figli, si tratta di famiglie numerose. E poi ci sono i genitori in pensione, i parenti disoccupati. Insomma, abbiamo calcolato che un operaio che lavora mantiene da 10 a 15 persone, come minimo'', ci dice Kozlov. Invece di calmare le acque - come forse pensava il governo - i licenziamenti fecero quindi montare la tensione e resero la situazione a Zhanaozen ancora più incandescente.

Nel giorno della carneficina, Kozlov era ad Almaty perché iniziava la campagna elettorale per le parlamentari. ''Il 16 dicembre - ci racconta - ero davanti al monumento all’Indipendenza, qui ad Almaty, con una delegazione del partito e in mano un mazzo di fiori. Fu in quel momento che ci chiamarono da Zhanaozen, e al cellulare sentimmo le raffiche dei mitra e la gente che urlava 'Ci ammazzano!''' Un video mostra chiaramente gli operai che scappano e la polizia che spara loro alle spalle, facendoli cadere come birilli. Alcuni feriti vengono picchiati selvaggiamente mentre sono a terra, indifesi. Si vede persino un uomo – probabilmente un agente in borghese – che spara contro chi fugge impugnando la pistola con entrambe le mani, per prendere bene la mira. L'ex leader dell'opposizione, che finora ci ha raccontato tutto per filo e per segno con voce pacata, adesso è visibilmente emozionato. “I poliziotti finivano le persone ferite”, ricorda. Eppure – denuncia - "il ministro Kassymov, che era ed è tuttora ministro dell'Interno, alle domande dei giornalisti su chi avesse dato l'ordine di sparare e perché, rispose che gli agenti avevano aperto il fuoco esclusivamente nei casi in cui le loro vite erano in pericolo".

Una spudorata menzogna.

Dopo la strage iniziano gli arresti in massa di coloro che hanno partecipato alle proteste. Per Kozlov comincia il calvario. Lascia il Kazakistan per alcuni giorni e interviene al Parlamento europeo per far sapere al mondo cosa è successo a Zhanaozen. Ma non appena torna in patria finisce in manette. “Il 23 gennaio del 2012 sono stato arrestato e rinchiuso nel carcere del Knb, i servizi segreti, qui ad Almaty”. Nel processo vengono chiamati a testimoniare contro l'oppositore anche numerosi petrolieri. L'accusa, come abbiamo detto, è quella di aver istigato alla ribellione e all'odio interetnico. “Dopo sei mesi di carcere ad Almaty, mi hanno trasferito ad Aktau, e qui – ci racconta – mi capitava di incontrare gli operai di Zhanaozen. Si trattava di incontri casuali: quando per certi atti delle indagini portavano nello stesso edificio me e uno di loro, potevamo scambiare due parole”. Le persone con cui parla Kozlov sono alcune di quelle che hanno testimoniato contro di lui. E se lo hanno fatto – sostiene l'oppositore – è perché, finite nella rete della giustizia kazaka, vi sono state costrette.

“Spesso loro mi chiedevano perdono per aver detto quelle cose, e mi spiegavano di averlo fatto solo perché erano stati picchiati brutalmente. Nei loro processi hanno denunciato percosse, torture, addirittura stupri con i manganelli, ma per i giudici erano solo tentativi di sfuggire alle loro responsabilità”. E al processo? “Non c'erano prove concrete contro di me – ci racconta il diretto interessato – e i testimoni dell'accusa parlavano per sentito dire. Poi quando gli veniva chiesto se avevano veduto o udito qualcosa rispondevano sempre di no. Uno ha persino detto: 'Io non ho visto né sentito, ma se è successo, lo condanno'. Ridicolo”. Un processo farsa, insomma, stando a quanto racconta lo stesso Kozlov, che Amnesty International non ha esitato a dichiarare prigioniero politico.

"Dopo la condanna a sette anni – ricorda l'oppositore - mi hanno spedito a nord, nel carcere di Petropavlovsk. Io non sono stato toccato perché ero accompagnato da un avvocato e sapevano che non sarei stato zitto. Ma lì non appena sono arrivato ho visto subito come vengono malmenati i detenuti”. I soprusi sono tanti. “Ti costringono a marciare come se fossi un soldato in piazza d'armi: in schieramento, cantando. Lo fanno per soffocare in te lo spirito di disobbedienza, perché se non marci ti picchiano, e anche se non ti togli il cappello davanti ai membri dell'amministrazione del carcere”. Forse quello di Petropavlovsk è un caso isolato? Secondo Kozlov proprio per niente: “Le regole vietano esplicitamente le punizioni corporali, le percosse, i trattamenti che ledono la dignità umana, ma nella pratica tutto questo è presente. Tutto questo. In tutte le prigioni del Kazakistan. Senza eccezioni”, assicura rimarcando le ultime due parole. “Lo so con certezza – spiega – perché ho provato sulla mia pelle otto carceri e due lager. L'ho visto, e poi ho parlato con la gente, con quelli di altri carceri, perché quando ti trasferiscono da un posto all'altro viaggi in treno con i detenuti di altri lager. Tutto avviene nello stesso modo: percosse, umiliazioni, violenze”.

Risuona la stessa triste musica anche nella prigione di Zarechnij, vicino Almaty, l'ultima in cui Kozlov è stato rinchiuso. “Quelli che erano nella mia baracca – racconta - li portavano nello Shizò, cioè nella cella d'isolamento, che è praticamente un carcere nel carcere, e lì venivano torturati. Buttano il detenuto per terra a pancia in giù, gli mettono davanti una tinozza di metallo piena d'acqua fredda, e a quel punto alcune guardie lo immobilizzano tenendogli ferme braccia e gambe e altre gli immergono la testa in acqua”. Kozlov adesso si spiega anche a gesti, mimando come le sentinelle ficcavano nell'acqua gelida la testa del povero detenuto finito nelle loro grinfie. “Tu bevi, bevi, finché puoi, poi cominci ad affogare, perdi conoscenza, ti tirano fuori, ti scuotono, ti fanno riavere e poi ti infilano di nuovo la testa nella tinozza”.

Kozlov è stato liberato con due anni e cinque mesi di anticipo. “All'improvviso” dice lui. Addirittura tre giorni prima della data fissata dal giudice, "per evitare che ci fossero giornalisti ad attenderlo all'uscita". Perché? “Credo che il Kazakistan ora sia molto interessato ad avvicinarsi all'Europa – spiega - e quindi alla fin fine per le autorità era più conveniente scarcerarmi piuttosto che continuare a essere bersagliate da istituzioni e organizzazioni internazionali che denunciano la presenza di prigionieri politici in Kazakistan”.

E’ arrivato il momento di lasciare Almaty, ma prima di andare in aeroporto facciamo un salto al Parco del primo (e finora unico) presidente kazako: al centro dello spiazzo c’è una grande statua di bronzo di Nazarbayev. E' seduto e dietro di lui si stagliano due ali stilizzate di granito: rappresentano le due principali città del paese – Almaty e Astana - ma per chi guarda il monumento quelle sono le ali di Nazarbayev.

Nota: Kozlov è un alleato di Mukhtar Ablyazov, l'oligarca dissidente noto in Italia per lo scandalo legato all'espulsione dal nostro paese di sua moglie Alma Shalabayeva e della figlioletta di sei anni, rispedite in Kazakistan il 31 maggio 2013 nonostante i gravi rischi a cui potevano andare incontro in patria. Ablyazov è stato detenuto in Francia per tre anni e mezzo dopo essere stato arrestato in una villa in Costa Azzurra perché accusato di truffa e appropriazione indebita per attività svolte quando era top manager della banca Bta; la giustizia francese aveva dato il via libera all’estradizione in Russia, ma il 10 dicembre 2016 il Consiglio di Stato ha annullato la decisione ritenendo che la richiesta avesse uno "scopo politico" e ha ordinato la scarcerazione del dissidente.

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L'apice della piramide di Astana

Astana, Dubai della steppa L'apice della piramide di Astana

Astana: la Dubai della steppa

Una città moderna, ricca di capolavori architettonici, strutture futuristiche e grattacieli, sorta come dal nulla nel bel mezzo della steppa. Astana, capitale del Kazakistan e presto sede dell’Esposizione internazionale Expo 2017, è una città in continua espansione che sembra uscire da un libro di fantascienza: cemento, vetro e acciaio dominano l’orizzonte, ma non mancano gli spazi verdi, i viali alberati e i giardini. Facendo un rapido giro per le strade del centro si potrebbe avere l’impressione che in Kazakistan sia tutto perfetto.

Appena una ventina d’anni fa, prima di diventare il salotto buono del Kazakistan, Astana era una cittadina di provincia sul fiume Yesil nota più che altro per la rigidità dei suoi inverni, dove le temperature possono scendere fino a 50 gradi sottozero. Tutto cambiò nel 1994, quando si decise di farne la capitale del paese perché più centrale e meno colpita dai terremoti rispetto ad Almaty. Ovviamente fu anche cambiato il nome alla città, perché quello originale, Akmola, cioè “Tomba bianca”, rischiava di essere di cattivo auspicio: meglio Astana, cioè, appunto, “la capitale”. I proventi del petrolio - di cui il Kazakistan è ricchissimo - hanno poi fatto il resto, trasformando un paesino in quella che è già stata ribattezzata la Dubai delle steppe.

Chi ha voluto la nascita di Astana? Nazarbayev, naturalmente. Se ad Almaty gli è stata addirittura dedicata una statua, anche qui ad Astana palazzi, musei e monumenti sono pieni di riferimenti reverenziali a questo presidente che tanto somiglia a un sovrano assoluto. A Nazarbayev è stato persino dedicato un museo. Si chiama Museo del Primo Presidente, ed è allestito nelle sfarzose sale dell’ex palazzo presidenziale: un edificio bianco sormontato da una grande cupola azzurra e dall’immancabile bandiera, anch’essa azzurra, del Kazakistan. Non appena messo piede nel museo, bisogna indossare dei copriscarpe di plastica per evitare di insudiciare il pavimento di marmo, poi si può iniziare la visita. Al pian terreno ci sono un grande ritratto di Nazarbayev in papillon e con addosso il collare di un qualche ordine onorifico, una grande mappa del Kazakistan e un’auto di lusso appartenuta alla presidenza.

Al primo piano - dove è severamente vietato scattare foto - fanno bella mostra di sé tutta una serie di regali e onorificenze che Nazarbayev ha ricevuto da governi stranieri (Italia compresa) e multinazionali del settore energetico. Tra tutti spicca una pistola Colt del XIX secolo, dono di un noto colosso del petrolio. Ma c’è anche una pagella scolastica dell’adesso 76enne presidente kazako: Nazarbayev a quanto pare aveva ‘5’ (il massimo dei voti) in tutte le materie. “Ecco, tutti ‘5’. Si capiva già da allora che era un grande uomo”, ci dice in russo il tassista, che ha deciso di seguirci nel museo, e che collega ingenuamente lo strapotere e la popolarità di Nazarbayev ai successi scolastici dell’adolescenza.

L’attuale palazzo presidenziale (Ak Orda) è più grande e imponente del precedente, ma in qualche modo ricorda il vecchio edificio: è anch’esso bianco, ma con un solenne colonnato all’ingresso, ed è anch’esso sormontato da una grande cupola azzurra, ma più maestosa, che termina con un’altissima guglia dorata su cui svettano un’aquila e un sole con 32 raggi: il simbolo del Kazakistan. “E’ la nostra Casa Bianca!” ci dice scherzando ma pieno di orgoglio un agente con in testa il tipico cappello circolare extralarge della polizia. Tutto ad Astana sembra avere un unico obiettivo: magnificare il Kazakistan e il suo presidente. Uno dei simboli della città è la Torre Bayterek: alta quasi 100 metri, bianca, con le pareti a graticcio, termina con una sfera dorata di vetro da cui si gode di uno splendido panorama e si può ammirare quasi tutto il centro di Astana. Per quanto somigli molto a un trofeo sportivo, la torre Bayterek rimanda in realtà a una leggenda locale: quella del mitico uccello Samruk, che depose sulla cima di un pioppo imponente e irraggiungibile dagli uomini un uovo d’oro che racchiudeva il segreto della felicità. Abbiamo raggiunto in ascensore l’interno dell’“uovo”, ma non vi abbiamo purtroppo trovato il segreto della felicità, probabilmente è rimasto sul pioppo inaccessibile della leggenda kazaka. In compenso c’è un calco dorato della mano di Nazarbayev: si può mettere la propria mano sulla stampa del palmo del presidente e guardare a est verso il suo palazzo. Oppure ci si può immedesimare in Schwarzenegger in Atto di forza.

Nel tour (di Astana) non può mancare un salto in un altro dei simboli della città: la Piramide di Astana, un gioiello dell’architettura in acciaio e vetro progettato da Norman Foster. Il celebre architetto britannico qui ha firmato anche il futuristico Khan Shatyr, un edificio di vetro a forma di yurta - la tenda circolare tipica delle popolazioni nomadi della steppa asiatica - costruito in modo tale da assorbire il calore e diffonderlo all’interno. Ma torniamo alla piramide. Ufficialmente si chiama “Palazzo della Pace e dell’Armonia”, un nome che sembra uscito direttamente da un romanzo di George Orwell. “Questa straordinaria struttura è stata voluta dal nostro amato presidente Nursultan Nazarbayev ed è stata inaugurata nel 2006 per ospitare il Congresso delle Religioni mondiali e tradizionali”, ci spiega la giovane e sorridente ragazza dai tratti orientali che ci fa da guida. La piramide simboleggia l’unione delle diversità, non solo religiose, ma anche nazionali e culturali: un concetto di vitale importanza per un paese multietnico come il Kazakistan.

L’ascensore sale in obliquo, seguendo la pendenza della piramide. Ci porta nella sala dell’Opera da 1.300 posti, dove in galleria, in mezzo alla marea di poltrone rosse, si nota subito che ce ne sono due più grandi ed eleganti delle altre: sono destinate al presidente e alla First Lady, ci racconta la guida. Poi raggiungiamo l’apice della piramide, dove sulle vetrate delle pareti è rappresentato un cielo azzurro pieno di colombe bianche, simbolo di pace, e al centro c’è un enorme tavolo, anch’esso bianco, per le conferenze: è vuoto in mezzo in modo da affacciarsi sul piano inferiore. Usciamo dalla piramide. Proprio di fronte troviamo una splendida moschea bianca, il Palazzo dell’indipendenza, lo Shabit - un edificio a forma di anello che ospita l’Accademia di Belle Arti - e soprattutto il Kazak Yeli (Nazione kazaka), una colonna bianca alta 91 metri con sopra un’aquila dorata: è stata realizzata per celebrare l’indipendenza del Kazakistan e, manco a dirlo, anche Nazarbayev, raffigurato in un rilievo alla base del monumento.
A proposito, a fine novembre è stato proposto di cambiare nome alla capitale kazaka. Per ribattezzarla come? Ma Nazarbayev, ovviamente.

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Il cantiere di Expo 2017

Expo 2017 Il cantiere di Expo 2017

Expo 2017: energia del futuro

L’anno prossimo i riflettori dei media mondiali si concentreranno su Astana per Expo 2017. L’Esposizione internazionale inizierà il 10 giugno e durerà tre mesi, durante i quali la capitale kazaka si aspetta la partecipazione di 100 paesi e, soprattutto, cinque milioni di visitatori. Si tratta di un’Expo internazionale, non universale, e quindi in versione un po’ ridotta rispetto all’Expo di Milano del 2015.

Ma ad essere sicuramente di primaria importanza è il tema: l’energia del futuro. “Si va verso un futuro in cui diversi tipi di energia coesisteranno" e l'obiettivo deve quindi essere quello di un "mix energetico più sostenibile, più pulito e più pensato per l'ambiente", ha spiegato a settembre il segretario del Bureau International des Expositions, Vicente Loscertales, a margine del Future Energy Forum al Radisson hotel di Astana. La speranza è che l’Expo sia anche per i padroni di casa un’occasione per migliorare la sostenibilità ambientale delle fonti energetiche che utilizzano. Il Kazakistan fa infatti largo uso di carbone per generare elettricità (per circa il 70% del totale) e questa è una delle cause dei problemi ambientali del paese, che è tra i principali emissori di anidride carbonica al mondo.

Il simbolo di Expo 2017 sarà il padiglione del Kazakistan: un’enorme sfera di vetro di 80 metri di diametro. A settembre, quando abbiamo sbirciato i lavori nella futura zona espositiva, sembrava quasi pronta.

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Kazakistan: il fotoreportage

La splendida moschea bianca vicino a piazza Indipendenza ad Astana
La splendida moschea bianca vicino a piazza Indipendenza ad Astana - RIPRODUZIONE RISERVATA

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Il fu mare di Aralsk

Aralsk Il fu mare di Aralsk

La pesante eredità sovietica

Aralsk, luglio. Nella saletta della stazione ferroviaria spicca un grande mosaico del 1921: rappresenta degli abitanti locali che su richiesta di Lenin si apprestano a issare reti cariche di pesce da mandare alla gente che moriva di fame in Russia. Altri tempi. Adesso il Mare d’Aral - in realtà un enorme lago salato - non bagna più questa sperduta cittadina del Kazakistan meridionale. Per raggiungerlo bisogna viaggiare per 40 chilometri attraversando la steppa sabbiosa e passando davanti alle carcasse arrugginite di vecchi pescherecci sotto i quali i cammelli si riparano dal sole che rosola la sabbia mista a sale.

Fino agli anni ‘60 il Mare d'Aral si estendeva tra il Kazakistan e l'Uzbekistan per 67mila chilometri quadrati. Poi a Mosca decisero di aumentare la produzione sovietica di cotone e le piantagioni riempirono i terreni desertici dell'Asia centrale. Piccolo particolare: i campi di cotone in mezzo alla steppa avevano bisogno di una gran quantità d'acqua, e così furono scavati fossati e canali dentro i quali far scorrere le acque del Syr-Darya e dell'Amu-Darya, i due fiumi che alimentano il Mare d'Aral. Risultato: tra il 1966 e il 1993 il lago si abbassò di oltre 16 metri ritirandosi per più di 80 chilometri a sud e ad est. E nel 1987 si divise a metà in un lago d'Aral settentrionale, più piccolo, e in uno meridionale, più grande. Adesso le strade di Aralsk sono invase dalla sabbia e in tutta la zona non si vede un solo campo coltivato. Secondo le persone del posto qui c’è un nuovo deserto: lo chiamano Akkum, Sabbie Bianche. Il bianco è quello del sale che una volta giaceva sul letto del lago e che ora forma chiazze chiare sulla steppa. Il vento lo solleva per chilometri e chilometri assieme alla sabbia e ai residui dei prodotti chimici usati per le coltivazioni causando problemi respiratori e tumori alla gola e all'esofago. Mentre la scarsità di acqua potabile ha fatto aumentare i casi di tifo e di epatite. Ad Aralsk e nei villaggi vicini c'è inoltre un alto numero di deformità alla nascita e molti sono anche i casi di tubercolosi.

Problemi di salute forse anche peggiori affliggono gli abitanti della regione di Semey, più famosa con il vecchio nome russo di Semipalatinsk. Qui, nel cosiddetto Poligono - una zona in mezzo alla steppa a ovest della città di Semey - tra il 1949 e il 1989, l’Armata rossa fece esplodere 460 bombe nucleari. I tremendi effetti sulle persone si vedono purtroppo ancora oggi: tumori, malattie del sistema immunitario e mutazioni genetiche. E ad essere a rischio sono anche le generazioni future.

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