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La parola della settimana è amore (di Massimo Sebastiani)

La parola della settimana è amore (di Massimo Sebastiani)

16 febbraio 2020, 09:22

Redazione ANSA

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L 'immagine della locandina della mostra di Jim Dine fino al 2 giugno al Palazzo delle Esposizioni - RIPRODUZIONE RISERVATA

L 'immagine della locandina della mostra di Jim Dine fino al 2 giugno  al Palazzo delle Esposizioni - RIPRODUZIONE RISERVATA
L 'immagine della locandina della mostra di Jim Dine fino al 2 giugno al Palazzo delle Esposizioni - RIPRODUZIONE RISERVATA

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‘Ci riempiamo la bocca con la parola amore’ e certe volte ‘la confondiamo con la parola pazzia’: lo dice, senza farne un j’accuse o puntare l’indice contro qualcuno, con la sua voce felpata e suadente, Pio XIII ovvero Lenny Belardo, il papa della finzione tv nell’ultima puntata di The New Pope di Paolo Sorrentino. Lui stesso, subito dopo aver parlato, scende tra i fedeli di piazza san Pietro che lo acclamano, molto silenziosamente in verità, come una rockstar, per abbracciarli uno a uno e alla fine si fa portare, come un Jim Morrison qualsiasi, sdraiato sulle loro teste. 
Siamo letteralmente inciampati nella parola amore, nella settimana di San Valentino: come si usa dire, una parola grossa, forse la più grande di tutti e soprattutto la più usata. Ci sono parole enormi, come nulla, essere, Dio, infinito che però, per ragioni diverse, non sono certo di uso comune. Vengono nominate magari da una cerchia ristretta di persone, o addirittura solo da alcuni specialisti. La parola amore no: è sulla bocca e, possiamo dire oggi, sulle tastiere di tutti. La vedi scritta su tutti i muri, come cantava Jovanotti, è stampata sui bigliettini, sulle t-shirt, è massacrata dai cantanti, citata in tv, oggetto di programmi, che a loro volta saccheggiano titoli di film, portata fino sul palco dell’Ariston a Sanremo nella sua forma più esaltata e vertiginosa, mistica e oscena, il Cantico dei Cantici, è persino oggetto di riproducibilità artistica in un contesto in cui arte e oggettistica sono a volte pericolosamente indistinguibili.

Eppure la parola amore riesce ad essere sempre nuova, fresca, attuale, qualunque cosa questo voglia dire. La parola amore deve avere una qualche forza intrinseca che la fa resistere all’uso e all’abuso secolare, una magia che non è e non è stata concessa a tante altre parole che hanno avuto periodi, magari anche secoli, fortunati e sono poi inesorabilmente declinate, travolte dal cambiamento, dalle rivoluzioni, dalle crisi, dalle migrazioni: pensate, che so, a lustro, ratto, palagio, lasso, verecondo.
Lenny Belardo ha ragione: ci troviamo in una situazione che è esattamente opposta a quella che verso la fine degli anni ’70 del ‘900 spinse Roland Barthes, critico letterario, semiologo, saggista, perfetta incarnazione del nuovo tipo di intellettuale che sapeva trattare con identica dignità l’alto e il basso, a scrivere Frammenti di un discorso amoroso, sorprendente long seller nato dalle ceneri di una stagione in cui il privato era e doveva essere pubblico e politico. Infatti Barthes, nella brevissima introduzione intitolata ‘La necessità’, scriveva: la necessità di questo libro sta nella seguente considerazione: il discorso amoroso oggi è di una estrema solitudine’. Ecco, oggi, diciamo la verità, è il discorso più pubblico che esista. Il che non significa, come sostiene per esempio lo psicanalista Massimo Recalcati che questo non sia un tempo ostile all’amore come quello descritto da Barthes oltre 40 anni fa. Ma di cosa parliamo quando parliamo d’amore?
La parola ha un’etimologia interessante. Quella che usiamo in italiano naturalmente deriva dal latino amor ma questa risale a molto più indietro, al sanscrito kama, che vuol dire desiderio, passione. E amare che discende dalla stessa radice indoeuropea ka, significa desiderare in maniera viscerale.

C’è un’altra ipotesi sull’origine della parola che la fa risalire al verbo greco mao, desidero: siamo sempre lì, è un amore viscerale, addirittura animalesco che i latini distinguono da quello espresso dal verbo diligere, scegliere, desiderare ma come risultato di una riflessione (il contrario del colpo di fulmine). Poi c’è una terza possibile origine, considerata assai meno probabile, ma molto interessante sotto il profilo della storia del pensiero e dei costumi, che la fa risalire al latino a-mors, cioè senza morte, che ne sottolinea la potenza accostandolo al suo contrario-confinante, la morte. E’ appena il caso di ricordare, oltre a tutta la letteratura, non solo psicoanalitica, che fa di amore e morte due fratelli come cantava Leopardi, quello che per molti è poco più di un mito, la petite mort, ovvero quel senso di svenimento successivo ad un intenso orgasmo nella donna. 

Insomma, l’amore, che di normale non ha neanche le parole, come ha cantato Francesco Gabbani proprio a Sanremo in Viceversa (titolo geniale nel suo tentativo di fare la sintesi dell’amore), sembra essere qualcosa di più e di meglio di tutta la sua letteratura, e forse per questo è ancora così vivo. E’ ancora nuovo e vitale nonostante tutti gli abbinamenti e i contrari che gli sono stati accostati: veleno o miele, follia o comprensione, potere o abbandono. Forse il suo segreto non è altro che l’ostinazione come ha cantato un altro poeta, Leonard Cohen, mistico e peccatore, ebreo ossessionato dalla religione tanto quanto dall’amore carnale, in un brano luminoso intitolato Love Itself: l’amore cammina, cammina finché non trova una porta aperta.

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