di Stefano Secondino
L'anidride carbonica raccolta dalle
imprese potrebbe presto essere raccolta e stoccata sotto il
mare, nei giacimenti esauriti di idrocarburi. E' il progetto sul
quale è al lavoro l'Eni a largo della coste romagnole. Un
argomento sul quale si sono già accesi i riflettori degli
ambientalisti. Il prossimo 12 maggio, in concomitanza con
l'assemblea dell'Eni, Fridays For Future, il movimento dei
giovani per il clima di Greta Thunberg, ha organizzato una
manifestazione a Ravenna contro il progetto. Lo stoccaggio
sottoterra del carbonio è da sempre avversato dagli
ambientalisti, quindi è la protesta potrebbe ottenere un ampio
appoggio, con il rischio - da un lato - che possa trasformarsi
in una nuova Tav sull'adriatico. Dall'altra parte però, l'Eni
sostiene che l'impianto è sicuro, riduce le emissioni di gas
serra e crea occupazione.
La compagnia energetica vuole pompare la CO2 di scarto da
produzioni industriali in alcuni suoi giacimenti offshore
esauriti. In Italia ogni anno vengono emesse 70-80 milioni di
tonnellate di anidride carbonica (principale responsabile del
riscaldamento globale) da raffinerie, fabbriche di acciaio,
cemento, fertilizzanti, carta. Sono i cosiddetti settori "hard
to abate", quelli più difficili da decarbonizzare. Per spingere
le aziende a "ripulire" le loro produzioni, l'Unione europea
ogni anno alza le imposte sulla CO2, attraverso il sistema di
scambio di quote di emissioni ETS. Decarbonizzare diventa sempre
più un'esigenza di bilancio, e per la CCS (Carbon Capture and
Storage) si apre un mercato appetibile.
L'Eni sta già realizzando un impianto di stoccaggio del
carbonio in giacimenti esauriti nella baia di Liverpool, per
decarbonizzare il locale distretto industriale. Un progetto
cofinanziato dal governo inglese, che vuole realizzare sette
impianti di questo tipo. A Ravenna Eni vorrebbe fare lo stesso,
con un investimento di 1 miliardo di euro e la promessa di
notevoli ricadute occupazionali. I giacimenti potrebbero
ricevere 2,5 milioni di tonnellate di CO2 all'anno, aumentabili
a seconda del mercato, e hanno una capacità complessiva stimata
di 500 milioni di tonnellate.
La società sostiene che l'impianto è sicuro: a suo dire i
giacimenti esauriti a 3-4000 metri di profondità sono ottimali
per la CO2, perché hanno contenuto idrocarburi per milioni di
anni, sono isolati da strati di terreno impermeabili e non
presentano rischi sismici.
Gli ambientalisti, e i ragazzi di Fridays For Future, la
pensano diversamente. Per loro, la CCS è solo un sistema per
continuare a usare combustibili fossili e rallentare il
passaggio alle energie rinnovabili. Inoltre, lo stoccaggio di
CO2 sottoterra presenta rischi di perdite in caso di terremoti.
"Con la promessa delle aziende fossili di compensare le
emissioni (alias proseguire con attività inquinanti nascondendo
una parte dei gas emessi), si apre una nuova era del
Greenwashing - scrive Fridays For Future -. Il CCS di Eni
rallenta la reale decarbonizzazione, sottrae altri miliardi alla
riconversione del nostro sistema energetico e apre la strada
all'era dell'idrogeno, che con sé porta la costruzione di nuovi
gasdotti e il potenziamento del monopolio energetico da parte di
poche aziende dalla storia inquinata".
Riproduzione riservata © Copyright ANSA