Ma nessuna bomba atomica ha causato la deflagrazione, generata invece da un carico di 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio lasciato colpevolmente incustodito per sette anni nell'hangar n.12. Finora l'inchiesta libanese non è riuscita a spiegare cosa abbia innescato la scintilla fatale. Ricostruzioni giornalistiche hanno fatto varie ipotesi: da un raid aereo israeliano su quello che è stato definito un deposito di esplosivo di Hezbollah, a un errore accidentale durante i lavori di saldatura di una delle lamiere del capannone n.12. Ma nessuna di queste e altre ipotesi ha finora trovato riscontri concreti.
Tra i 204 uccisi c'è un'anziana italiana da decenni residente a Beirut. Ci sono bambini e ragazzi e giovani donne, decine di lavoratori siriani, bengalesi, egiziani e di altre nazionalità.
I corpi di nove persone non sono mai stati ritrovati.
Moltissimi dei 6.500 feriti sono rimasti sfigurati in viso e in altre parti del corpo dalle schegge di vetro, legno, metallo.
Come lame queste schegge hanno lacerato per sempre, alle 18.08 di un ordinario giorno d'estate in piena pandemia, le vite di moltissime famiglie dei quartieri popolari di Geitawi e Rmeil, nella favela di Karantina, nelle zone della movida di Mar Mikhail, nella via Gemmayze con le sue case tradizionali, tra i gazebo della mobilitazione anti-governativa a piazza dei Martiri, tra i negozi del suq ricostruito di Beirut vicino a un nuovo edificio, anch'esso danneggiato, realizzato dallo studio della celebre architetta Zaha Hadid.
Già provati da una crisi economica senza precedenti negli ultimi 30 anni e scoppiata in tutta la sua drammaticità nell'ottobre del 2019, moltissimi abitanti di Beirut e del Libano non credono nella giustizia locale e nell'inchiesta in corso. Finora sono finiti in carcere una trentina di funzionari di medio e basso rango del porto e dei servizi di sicurezza. A dicembre la procura di Beirut ha incolpato formalmente per "negligenza" e "mancanze", l'attuale premier uscente, Hassan Diab, e tre ex ministri. Questi si sono però rifiutati di farsi interrogare, schermandosi dietro l'immunità istituzionale.
Lo stesso primo ministro Diab si era dimesso dopo l'esplosione, ma il sistema di potere, definito clientelare e corrotto dal movimento di protesta popolare, è finora riuscito a prender tempo senza nemmeno nominare un nuovo governo.
Il presidente francese Emmanuel Macron, che all'indomani della tragedia si era recato a Beirut per ben due volte in poche settimane, ha nei giorni scorsi annunciato di voler tornare nella capitale libanese per tentare di sbloccare lo stallo istituzionale.
Intanto a Tripoli, l'altro porto del Libano nel nord del Paese, è tornata a infiammarsi violenta la protesta per l'assenza di aiuti statali alla popolazione. Come a Tripoli, in altre periferie del paese la gente è stremata dall'impoverimento galoppante aggravato dalle misure anti-covid. "Ci affamano dopo averci dato fuoco", urlava nei giorni scorsi un manifestante a Tripoli, riferendosi proprio alla crisi economica e alle fiamme che sei mesi fa hanno lasciato un segno indelebile in un paese già nell'abisso. (ANSAmed).