"Questa storia fa saltare per aria 10 anni di racconto sulla migrazione in Europa" dice Severgnini citando le motivazioni ricevute per la bocciatura. Il documentario mette in discussione il fatto che i migranti vogliano ancora partire ad ogni costo per arrivare in Europa. Gli stessi africani arrivati in Libia esprimono questa disillusione, descrivendo un sistema di coordinazione, e corruzione, che coinvolge trafficanti di esseri umani, milizie libiche ma anche Ong. "In Libia 40mila africani già riconosciuti come rifugiati potrebbero essere portati in Europa subito in aereo" denuncia Severgnini che si è recato in Tunisia per filmare. Lì ha incontrato moltissimi africani scappati dopo mesi di sofferenze in centri di detenzione in Tripolitania e che invece di aspettare ancora pur di arrivare in Italia preferirebbero addirittura tornare nei loro Paesi d'origine, da dove mesi o anni prima erano fuggiti da guerra e povertà. Severgnini porta lo spettatore davanti alla violenza dei centri di detenzione libici mostrando filmati girati all'interno dai migranti stessi coi cellulari. I miliziani usano i telefoni per filmare torture sui migranti e poi mandare i video alle loro famiglie, in altri Paesi africani, chiedendo riscatti di migliaia di euro in cambio della fine delle sevizie.
Copri martoriati, bruciature sulla pelle, l'eco di grida disperate in stanzoni affollati e sporchi. Severgnini mette il pubblico davanti a un documento raro, se non unico, ma sceglie di non insistere sulla spettacolarizzazione della violenza e approfondisce i motivi di quella che viene descritta come una nuova tratta degli schiavi. Grazie a filmati girati dai migranti stessi, "L'Urlo" si spinge dove molte inchieste non sono riuscite ad arrivare. "I lavori giornalistici che vedevo sulla Libia erano in qualche modo incompleti, anche chi riusciva a filmare dentro ai centri lo faceva scortato da milizie. Quando un migrante è intervistato con miliziani seduti dietro alla telecamera, accanto al giornalista, cosa potrebbe dire?" sottolinea il regista. Il film è il risultato finale di una ricerca che Severgnini - documentarista da oltre 20 anni, al lavoro in passato anche per Rai e La7 - ha svolto dal 2018. È riuscito a mettersi direttamente in contatto con gli africani arrivati in Libia con l'idea di muoversi in Europa e in oltre tre anni ne ha intervistati circa un migliaio. Regolarmente ha pubblicato testimonianze e filmati che gli inviavano sul suo blog, raccogliendo l'attenzione di testate internazionali e anche di Roberto Saviano che ne ha scritto per L'Espresso.
Dopo la bocciatura dei festival, Severgnini sta considerando di pubblicare il film on line e cerca un sostegno politico per cercare di proiettarlo al Parlamento italiano. (ANSAmed).