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Disturbo primario del linguaggio: mio figlio a tre anni parla poco e male… cosa fare?

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Disturbo primario del linguaggio: mio figlio a tre anni parla poco e male… cosa fare?

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Responsabilità editoriale di PRIMA PAGINA ITALIA

Il ritardo e il disturbo primario di linguaggio: quando, perché e come intervenire. Ne parliamo con le Dott.sse Paola Montoro e Raffaella Sisti logopediste – Associazione Paroleincerchio.

13 aprile 2021, 12:17

PRIMA PAGINA ITALIA

- RIPRODUZIONE RISERVATA

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PressRelease - Responsabilità editoriale di PRIMA PAGINA ITALIA

Può capitare a chi è genitore di trovarsi alle prese con un bambino che tarda a parlare, o che ancora non si esprime in modo chiaro e ben strutturato. I dubbi sono tanti: parlerà da solo o bisogna fare qualcosa? Ne parliamo con le Dott.sse Paola Montoro e Raffaella Sisti, logopediste – Studio di Logopedia – Associazione Paroleincerchio

 

Il linguaggio è la funzione superiore più sofisticata del Sistema Nervoso Centrale dell’essere umano, quella  che lo differenzia dalle altre specie animali e gli permette di veicolare ai suoi simili molteplici informazioni in modo molto più preciso e articolato rispetto ad altri canali comunicativi.

Il linguaggio è anche un mediatore sociale, in quanto ci permette di entrare facilmente in contatto con gli altri, organizza l’esperienza e il pensiero e ci aiuta a comprendere meglio il mondo circostante.

In generale si può affermare che le abilità possedute da ogni bambino in una precisa fase del suo sviluppo sono il risultato di un processo di crescita, che si realizza grazie all’interazione di numerosi fattori, biologici ed ambientali.

Il bambino impara ad “usare il linguaggio”, cioè a condividere e costruire conoscenze utilizzando lo strumento verbale, in un tempo relativamente breve. Ogni bambino è unico in questo percorso di acquisizione, con tempi e stili anche molto variabili, e l’organizzazione delle fasi e il timing dello sviluppo sono ormai conoscenze ben consolidate e condivise grazie al costante apporto della ricerca scientifica.

In assenza di patologie, l’acquisizione della lingua madre, cui il bambino è esposto, non richiede un insegnamento specifico, ma presuppone l’attivazione di abilità di base non linguistiche: come la capacità del piccolo di orientare l’attenzione verso oggetti e/o stimoli sociali e la capacità di integrare le informazioni provenienti dai differenti organi di senso. Dalle maturazione di questi processi emergono altre competenze che sostengono il graduale sviluppo del linguaggio, come l’attenzione condivisa e l’imitazione di sequenze complesse del comportamento adulto.

Da una comunicazione non intenzionale, in cui il bambino emette suoni senza il desiderio di ottenere un effetto nell’adulto, si progredisce verso la fase intenzionale, in cui l’intenzione di comunicare è  in realtà costruita dall’adulto, che “risponde” ai suoni del bambino stesso attribuendo un significato al pianto, ai gridolini,  ai gorgoglii del piccolo. Verso i 9 – 13 mesi l’intenzione comunicativa si esprime anche attraverso i primi gesti, veri precursori delle parole, che permettono al bambino di passare da una comunicazione fortemente contestualizzata con i gesti deittici dell’indicare, dare, mostrare ad un’altra, che compare tra i 12 e i 16 mesi, più rappresentativa e simbolica, con i cosiddetti gesti referenziali come “ciao”, “non c’è più”, ecc.). In particolare l’indicazione o pointing, utilizzata per richiedere ma soprattutto per condividere, è un potente indice predittivo della motivazione a comunicare, prima condizione indispensabile per sviluppare il linguaggio verbale.

Altro elemento di fondamentale importanza è che il bambino abbia un ambiente che lo ascolti e lo stimoli in modo adeguato:  indispensabile è l’interazione precoce tra bambino ed adulto che lo accudisce, all’interno di scambi ritualizzati e contestualizzati; favorente è uno stile comunicativo tra madre e bambino che sia “tutoriale”, ovvero si adatti alle esigenze del piccolo, fornendogli non solo descrizioni e denominazioni dell’oggetto o della situazione, ma anche espansioni della sua produzione verbale.

Quali sono i criteri che segnalano un probabile ritardo di linguaggio?

- il mancato sviluppo della lallazione entro il primo anno di vita;

- l’assenza del gesto dell’indicare entro i 16 mesi;

- l’assenza o la marcata difficoltà di comprensione verbale tra i 18 e i 24 mesi: criterio determinante al fine di stabilire tempi e modalità di intervento;

- l’assenza di verbalità dopo i 18 mesi;

- il mancato sviluppo del linguaggio entro il secondo anno di vita: svariati studi indicano che a 24 mesi un vocabolario inferiore alle 50 parole è un possibile, importante indicatore di rischio da non sottovalutare;

- una persistente povertà del vocabolario o una regressione delle abilità linguistiche entro il terzo anno di vita;

- l’assenza di combinazione di due parole tra i 24 e i 30 mesi, l’assenza delle prime frasi tra i 24 e i 36 mesi: sono altri indicatori cruciali.

 

Chi sono i parlatori tardivi?

 

Un bambino che tra i 24 e i 30 mesi presenta  un vocabolario ridotto, non sempre comprensibile e non produce piccole frasi di almeno due elementi è definito un late talker, ovvero un parlatore tardivo. Questi bimbi, soprattutto quando non hanno difficoltà di comprensione, se identificati e presi in carico precocemente, possono evolvere in modo positivo: il loro linguaggio può “sbocciare” e normalizzarsi in tempi relativamente brevi. Di questi bimbi parlatori tardivi, che rappresentano circa l’11 – 13 % dei bambini tra i 18 e i 36 mesi , il 70% ha una prognosi favorevole entro i tre anni di età. Quando il disturbo persiste oltre i tre anni, raramente viene recuperato spontaneamente e si configura il quadro del Disturbo Primario di Linguaggio.

 

Cos’è il Disturbo Primario del Linguaggio?

 

Il Disturbo Primario di Linguaggio (DPL), precedentemente noto come DSL, ovvero Disturbo Specifico di Linguaggio, è un disturbo del neurosviluppo tra i più insidiosi ed un rilevante problema di salute pubblica, possibile fonte di serie conseguenze a lungo termine nella vita dell’individuo che ne è affetto, se non adeguatamente fronteggiato.

E’ il più frequente disturbo in età evolutiva: i dati epidemiologici indicano una prevalenza in età prescolare pari al 5-7% circa dei bambini di questa fascia di età, in maggioranza maschi. Esso non rappresenta tuttavia una categoria diagnostica omogenea, in quanto può interessare la produzione ma anche  la comprensione e può riguardare una o più aree del linguaggio.

 

Qual è il ruolo del logopedista?

 

Il logopedista è il professionista sanitario competente per effettuare azioni di osservazione, valutazione e counselling ai fini preventivi, per riconoscere in tempo i segnali di un possibile ritardo/disturbo di linguaggio prima che si sia stabilizzato e possa avere ricadute negative sui futuri apprendimenti scolastici. Com’è noto in letteratura, chi è affetto dal disturbo di linguaggio, infatti, è esposto a un rischio di  problemi di apprendimento stimato cinque volte superiore rispetto alla popolazione con sviluppo tipico del linguaggio.

Per realizzare una reale prevenzione, il  logopedista ha a disposizione diversi strumenti a seconda dell’età del piccolo: già a partire dai primi mesi di vita è possibile l’osservazione del gioco spontaneo e semi-strutturato e l’analisi di questionari rivolti ai genitori e agli altri adulti di riferimento.

A partire dai 30-36 mesi di età, il logopedista può procedere ad  un bilancio logopedico completo delle capacità comunicativo-linguistiche del bambino attraverso la valutazione diretta che si avvale, oltre che dell’osservazione e dell’analisi dei questionari, anche di test standardizzati. Nel documento di consenso messo a punto dalla FLI, Federazione Logopedisti Italiani,  viene indicata la fascia di età compresa fra i tre anni e mezzo e i quattro quale periodo entro cui è consigliato formulare la diagnosi accurata di DPL.

L’intercettazione tempestiva del disturbo, ma anche del ritardo di linguaggio, permetterà di intervenire in modo nettamente più efficace sia indirettamente mediante azioni di counselling familiare, sia direttamente se necessario: esistono infatti evidenze scientifiche che gli interventi precoci hanno esito più favorevole. 

Il counselling logopedico permette in particolare al professionista di:

  • conoscere lo sviluppo pregresso del bambino, indagare sulla presenza di eventuali fattori di rischio;
  • accertare l’attuale livello di sviluppo delle sue modalità di interazione con l’ambiente circostante;
  • rilevare le credenze dei genitori, il loro stile conversazionale ed educativo in generale, le strategie messe in campo in autonomia per fronteggiare le criticità;

I genitori attraverso questo percorso di consulenza vengono a conoscere:

  • le tappe di sviluppo del linguaggio che i bambini con la loro variabilità interindividuale raggiungono;
  • le modalità per monitorare lo sviluppo comunicativo del proprio bambino e le strategie più  efficaci per sostenerlo in modo consapevole, ad esempio migliorando il contesto, incrementando le occasioni e la qualità degli scambi verbali.

Le azioni di counselling e l’intervento logopedico abbatteranno sensibilmente il rischio che il piccolo possa avere problemi nel relazionarsi adeguatamente con gli altri a causa delle sue difficoltà comunicativo-linguistiche, e che queste in età scolare possano trasformarsi in difficoltà di lettura e/o scrittura.

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DENTI STORTI? CONTROLLA LA LINGUA! - Dott.ssa Paola Montoro - Dott.ssa Raffaella Sisti

 

MAMMA E PAPA’… TOGLIETEMI IL BIBERON!!

 

Studio di Logopedia Dott.sse Paola Montoro, Raffaella Sisti e Associati

Sito web: www.studiodilogopediaparoleincerchio.it

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