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Intervento di telemedicina sulla Stazione Spaziale

Intervento di telemedicina sulla Stazione Spaziale

Per una trombosi, riservata l’identità dell’astronauta

07 gennaio 2020, 10:52

Redazione ANSA

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La Stazione Spaziale Internazionale (fonte: NASA) - RIPRODUZIONE RISERVATA

La Stazione Spaziale Internazionale (fonte: NASA) - RIPRODUZIONE RISERVATA
La Stazione Spaziale Internazionale (fonte: NASA) - RIPRODUZIONE RISERVATA

Intervento di telemedicina per una trombosi a bordo della Stazione Spaziale (Iss): ha coinvolto per la prima volta un medico esterno alla Nasa. Reso noto soltanto ora, l'intervento è stato richiesto per una trombosi venosa profonda alla giugulare di un astronauta, la cui identità è protetta per motivi di privacy. È la prima volta che si verifica un problema medico di questa natura in orbita. L’astronauta si è accorto della trombosi per caso, mentre conduceva su se stesso un esperimento sulla circolazione sanguigna in condizioni di microgravità.

Il consulto medico a distanza, i cui dettagli sono pubblicati sul New England Journal of Medicine, è stato svolto da Stephan Moll, della Scuola di Medicina dell’Università americana della Carolina del Nord. “La mia prima reazione è stata chiedere se potevo visitare la Stazione Spaziale per esaminare il paziente", ha detto Moll." La Nasa - ha aggiunto - mi ha risposto che non sarebbe stato possibile portarmi nello spazio abbastanza velocemente, quindi ho visitato l'astronauta a distanza”.

Moll precisa che “normalmente, il protocollo per il trattamento di un paziente con una trombosi venosa profonda prevede l’uso di fluidificanti del sangue per almeno tre mesi, per impedire che il coagulo si ingrandisca e per ridurre il danno che potrebbe causare in altre parti del corpo, come il polmoni. Il rischio però - ha aggiunto - è che, in caso di lesioni, ci sia un’emorragia interna difficile da arrestare. Sapendo che nello spazio non c’è assistenza medica di emergenza - ha detto ancora Moll - abbiamo, quindi, dovuto scegliere attentamente farmaco e dosaggio”.

Alla fine, considerando le scarse scorte di medicinali a bordo, la scelta è caduta su un fluidificante da iniettare per 40 giorni, in attesa dell’arrivo della navicella con i rifornimenti di farmaci in pillole.L’uso di ultrasuoni ha permesso di cotrollare i progressi della terapia. “Ci siamo tenuti in contatto via mail e telefono. È stato divertente - scherza Moll - pensare che avevo meno difficoltà a comunicare con lo spazio che con la mia famiglia in Europa”.

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